Classe 1990, Luca Massaro è un giovane attore, da poco trapiantato a Roma, con già numerose esperienze di rilievo alle spalle in giro per l’Italia. Barba e riccioli neri da siciliano purosangue, lo sguardo tra l’irriverente e il malinconico, Luca ha una faccia che non si dimentica facilmente e una presenza scenica che invita all’empatia. Guardandolo, non si può fare a meno di pensare che uno come lui – magnetico, anticonvenzionale e persino allergico all’eccessiva tecnologia – non poteva che fare l’attore.
Dopo il diploma conseguito alla Scuola di Formazione del Mestiere dell’Attore L’Oltrarno del Teatro della Toscana, diretta da Pierfrancesco Favino – percorso di formazione durante il quale ha recitato negli spettacoli Brecht Said, Il Mercato della Carne e Sogno di una Notte di Mezza Estate – è entrato a far parte del cast del kolossal I Giganti della Montagna, diretto da Gabriele Lavia e coprodotto da Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Stabile di Torino e Teatro Biondo di Palermo, nei panni di uno dei membri della Compagnia della Contessa.
Lo scorso anno ha inoltre iniziato a collaborare con il Teatro Stabile di Catania, dove sarebbe dovuto andare in scena in compagnia di altri dieci attori siciliani under 35 con un altro testo pirandelliano, La Nuova Colonia, facente parte, insieme a Lazzaro e agli stessi Giganti, della trilogia del mito del drammaturgo agrigentino. Oltre a questo spettacolo, che è ancora in attesa di debuttare non appena il Covid lo permetterà, Luca ha altri progetti interessanti in cantiere e un’idea molto chiara sulle condizioni in cui versa il teatro italiano. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui perché ci raccontasse cosa significa per lui il mestiere dell’attore, soprattutto in questo momento storico alquanto complesso e particolare.
Nonostante il periodo di stallo che ha colpito il teatro italiano e mondiale, hai vari progetti in fase di creazione. Di cosa si tratta?
Sembra strano quello che sto per dire, ma per l’arte – e la cultura in generale – c’era bisogno di questo periodo difficile, altrimenti non avremmo mai aperto gli occhi. Io penso di aver avuto due reazioni opposte: all’inizio, per quasi sei-sette mesi, non sono riuscito a lavorare, perché non vedevo una via d’uscita. Ad un certo punto, però, un specie di istinto di sopravvivenza mi ha fatto venire in mente tre soggetti, che ho condiviso con Marco Giavatto, autore e attore. Io, infatti, non mi auto-dichiaro un autore: ho molte idee ma ho anche bisogno di collaborare con qualcuno che le scriva concretamente. Una delle tre storie è ambientata in Sicilia, in una sorta di futuro catastrofico che mi sono immaginato al termine della pandemia. Parla del viaggio di un bambino di 10 anni attraverso l’isola, durante il quale egli incontra persone che lo giudicano e che lui stesso è costretto, a sua volta, a giudicare.
So che hai partecipato anche ad un corto…
Sì, ho girato un corto, che vede Tea Falco come protagonista, dal titolo Figlio Santo. L’autore e regista è un mio carissimo amico, di un anno più giovane di me, Aliosha Massine, che ha un talento straordinario ed una capacità di produrre poesia come se non ci fosse un domani. Il film è la trasposizione della storia di Maria e Giuseppe ai giorni nostri. Tea veste i panni di Maria, mentre io sono Giuseppe. Siamo una coppia in crisi, che non ha un rapporto sessuale da molto tempo, eppure, ad un certo punto, nasce il dubbio che lei sia incinta. Vi è un interessante gioco di detto e non detto all’interno della coppia. Il finale è aperto e a libera interpretazione. Il corto ha una fotografia bellissima ed è già uscito per la distribuzione.
Nonostante il teatro tutto si sia fermato a marzo 2020 per la pandemia, la direttrice del Teatro Stabile di Catania, Laura Sicignano, ha fatto in modo di trasformare la necessità di rimandare la messa in scena di uno spettacolo, La Nuova Colonia, di cui fai parte, in un’esperienza positiva per gli attori e in un’occasione di sperimentazione. Il lavoro è infatti proseguito sotto forma di studio…
Devo dire di più. Lo spettacolo è sì stato trasformato in uno studio, ma credo che ci sia qualcosa di più grande sotto. Al Teatro Stabile di Catania, infatti, vi è da un paio di anni una nuova direttrice, Laura Sicignano, molto giovane e donna, e, per questo, dotata di una sensibilità incredibile. Tra l’altro, non ho mai visto un direttore di teatro assistere alle prove di uno spettacolo, mentre lei si sedeva spesso in un angolo a guardarci: una cosa meravigliosa.
Quello a cui ho partecipato era un bando aperto agli under 35. Siamo tutti attori siciliani e questo è molto importante, perché sta succedendo qualcosa di veramente brutto in Sicilia: la grande tradizione del teatro siciliano sta morendo. Si ha, quindi, sia il bisogno di recuperarla, che quello di ricercare elementi nuovi del teatro siciliano. C’è bisogno di freschezza, di nuovi attori, di nuove cose.
Inoltre, allo Stabile di Catania, stava accadendo qualcosa di molto strano. Da 20 anni vi lavoravano sempre gli stessi attori, mentre da quando è entrata questa nuova direttrice, tutti le stanno facendo la guerra, perché gli attori che si erano seduti comodi in quel teatro e continuavano a fare spettacoli senza mai fare un provino, adesso si sono ritrovati ad essere come gli altri. E questo mette loro tanta paura. Se partecipiamo tutti con le stesse armi, sarà bellissimo prendere parte a questa “lotta” e vedremo, alla fine dei conti, chi andrà avanti.
Durante lo studio in vista della messa in scena de La Nuova Colonia è stato girato anche un documentario, che racconta il vostro lavoro e quello del regista Simone Luglio. Secondo te, si può riuscire a parlare al pubblico anche con mezzi diversi in questa fase, oppure il teatro si fa “soltanto” in teatro?
Esatto, il documentario parteciperà anche a dei festival. Ė stato meraviglioso: questo pover uomo (Andrea Gambadoro) per otto ore al giorno ha tenuto sulle spalle dieci chili di telecamera, perennemente con la mascherina, per poter stare sul palco con noi e fare dei bellissimi primi piani.
Per quanto riguarda un discorso più generale sui mezzi di comunicazione che il teatro può sfruttare, invece, io credo che in Italia ci siamo un po’ dimenticati del fatto che l’importanza del teatro sta nella condivisione. Il pubblico, in presenza, vede un corpo che respira e incontra a sua volta un altro corpo, ed assiste così ad una storia. Vi è un fenomeno fisico che deve accadere tra l’attore e il pubblico, per cui il pubblico seduto deve provare la stessa stanchezza dell’attore. Se questo non succede, c’è qualcosa che non va nello spettacolo. Quindi sentire il respiro e, anzi, l’incrocio dei respiri è una cosa fisica importantissima, perché ci porta a provare empatia, cosa che, purtroppo, al giorno d’oggi scarseggia. Inoltre, le proposte in streaming che ho visto in giro non sono nuove, sono spettacoli vecchissimi. Quindi, stiamo semplicemente vendendo arte di seconda mano.
Ad esempio, io ero uno di quelli che fino a qualche settimana fa era contrario a Sanremo, ma, se ci pensi, è giusto che ci sia Sanremo perché è l’evento culturale più conosciuto in Italia ed è quello che porta le persone a parlarne (bene o male) su Facebook. È giusto che Sanremo sia morto, ci fa capire come stiamo morendo. È anche giusto far vedere che sbagliamo. Anzi, siamo stati abituati a non sbagliare mai ed apparteniamo ad una generazione a cui hanno rubato il tempo, ma cui hanno anche regalato l’ansia, perché non ci permettono di sbagliare.
Pensi che dopo la pandemia ci sarà una sorta di liberazione da questo senso di oppressione che ci porta a credere di non poter mai commettere errori e che prevarrà la voglia di fare, dopo tante restrizioni, a prescindere dalle difficoltà che si presentano?
Sto per dire una cosa pericolosissima: credo che i teatri nazionali debbano smettere di credere di essere delle aziende di teatro e debbano invece pensare a fare del teatro. Si pensa sempre più a riempire la sala, fregandocene del come. Se tu, teatro nazionale, ti pensi un’azienda, un’industria di teatro, devi pensare anche al futuro. Il mondo è cambiato ed è giusto che Pirandello, Shakespeare e Pinter vengano raccontati in maniera tale da avvicinarsi a più generazioni, specialmente alle nuove.
Ci dicono sempre che siamo vuoti, che non abbiamo voglia di fare, ma questa è la reazione che deriva dal fatto che ci fanno sentire in colpa solo perché abbiamo delle domande da fare. Io non so com’è la scuola fuori della Sicilia, ma almeno io a scuola mi accorgevo che spesso la reazione a certe mie domande era: “Come ti permetti di fare questa domanda?” Ci hanno così tolto la bellezza di avere il tempo di scoprire e di scoprirci.
Inoltre, prima tutto funzionava in maniera diversa. Tutti i grandi maestri non hanno dovuto sudare per farsi notare, per loro era molto più facile. Si faceva l’accademia e la classe che si era appena diplomata partiva in tournée. Adesso non è così. Anzi, se un’intera classe parte in tournée devi chiederti come mai questo accade. Il fatto è che viene fatto il teatro tramite la politica, mentre dovrebbe essere al contrario. La democrazia l’hanno inventata i Greci, ma l’hanno inventata grazie al teatro. Prima hanno inventato il teatro e poi hanno capito che esiste la democrazia. Non può mai essere il contrario. Invece oggi è tutto politica, è tutto solo politica. In un’intervista, Laura Sicignano ha detto che a pagare non sarà l’attore o il regista meno talentuoso, ma sarà l’attore o il regista meno potente economicamente. Ed ha ragione.
Il regista di La Nuova Colonia, Simone Luglio, ha detto che degli 11 attori siciliani under 35 che hanno partecipato al progetto lo hanno colpito la “grande personalità, creatività e follia. La follia o la disperazione che ci vuole per prendere la decisione di mollare tutto e partire per un’isola deserta che dicono un giorno scomparirà inghiottita dalle acque.” Ti riconosci in questa descrizione, specialmente nella tua scelta di diventare attore? E quanto la tua sicilianità incide sulla tua forza espressiva e sul tuo essere attore?
Noi messinesi abbiamo tutta la città affacciata sullo stretto, quindi vediamo il mare e poi la Calabria, che per noi non è la Calabria ma è il resto dell’Europa. Viviamo perennemente con questo sogno di speranza davanti a noi, lo vediamo ogni giorno quando andiamo a lavorare, quando usciamo la sera… d’estate si vive al mare e noi non possiamo, in quanto messinesi, non ballare davanti al mare.
Una volta, a L’Oltrarno, mi hanno chiesto di scrivere perché mi piace fare teatro e io ho scritto che non lo sapevo: mi piace e basta. Poi però ho cercato di capirmi. La coscienza democraticamente cristiana del 90% dei siciliani, che porta sempre a stare un po’ in silenzio, ci sta facendo impazzire, perché siamo un popolo molto sentimentale, molto passionale. Abbiamo bisogno di abbracciare, di offrire, di fare regali. E di questo fatto di sentirsi isola me ne sono accorto quando mi sono trasferito per la prima volta in un’altra città, per andare a scoprire il mondo dell’attore. Mi sono reso conto che noi siciliani ci siamo fatti delle leggi mentali non dette allucinanti. Noi siamo liberi, ma non ci sentiamo liberi. E questa è la nostra isola. Abbiamo bisogno di sentirci perennemente liberi. Abbiamo spesso bisogno anche di sopraffare l’altro, e questo in teatro si vede: quando hai davanti un siciliano o un napoletano scappa, perché ti mangia vivo. C’è una fame di fondo, anche solo per il fatto che uno ha preso un treno ed ha fatto nove ore di viaggio per andare a fare un provino. Per cui adesso ‘levatevi che tocca a me, che ho fatto nove ore di viaggio perché non ho i soldi per comprarmi il biglietto dell’aereo’. E io li voglio i soldi per comprarmi il biglietto dell’aereo.
Da cosa è nata la spinta di voler fare l’attore e come ha inciso sul tuo percorso la scuola de L’Oltrarno?
Ieri ho ritrovato questa foto di me ad un anno o due, in piedi su un tavolo, a raccontare chissà che storia. Sono nato in un quartiere malfamato, in un complesso attorniato da case popolari, dove succedono un sacco di cose brutte. Per cui, questo mio istinto di pazzia completamente fuori dal contesto in cui mi trovavo mi ha salvato la vita, perché altrimenti o diventavo spacciatore o entravo in polizia. Molti ragazzi del mio quartiere che erano spacciatori sono poi diventati poliziotti e si sono salvati la vita, hanno avuto la coscienza di salvarsi la vita.
Io sono nato e cresciuto in questa realtà a cui torno perennemente, perché i miei genitori vivono ancora là. Le persone che vivono lì sono considerate dal resto del mondo come persone che non devono essere calcolate. Ma se non dai loro una cultura, se i genitori sono disperati, l’unica cosa che possono insegnare ai figli è la disperazione, oltre a concetti quali il patriarcato e la supremazia fisica. Per cui, il teatro, il condividere serve anche a questo: serve a capirsi e a capire che siamo tutti umani e possiamo sbagliare.
Io all’inizio avevo bisogno, intanto, di capirmi come persona, per poi capire che attore sarei stato. L’Oltrarno è stato per me la mia vera scuola, il mio vero liceo, perché non è solo una scuola di recitazione ma è un luogo dove impari a conoscerti. È stato bello vedere come ogni nuovo insegnante che arrivava sapesse già i nomi di tutti. Gli insegnanti lavoravano su te Luca Massaro, non avevano un metodo standard per cui ‘se non ci vai bene sono affari tuoi, perché io sono un grande insegnante, anzi sono un attore che non lavora e quindi ti insegno la mia frustrazione‘. Gli insegnanti dell’Oltrarno non sono così, sono insegnanti veri ed hanno fame di formare. Ci hanno insegnato ad ascoltare l’altro. Spesso, in scena, gli attori pensano di interpretare un monologo, e, presi da loro stessi, non si accorgono di recitare una battuta rivolta all’altro, anche se lunga. Mentre, invece, il teatro è fare l’amore, non è farsi le seghe.
Silvia Bedessi