Facciamo un rapido riepilogo… se vi siete persi le prime due parti ecco i due link per recuperarle…
La prima parte – un ricettacolo di onirismo
La seconda parte – puro fascino
La terza parte – una ragnatela di eventi
Ora che siete rimessi in pari… ma anche no, possiamo cominciare: In molti noir americani del periodo, il versante stilistico si dipana in una duplice articolazione:
«a una prima parte in cui la messa in scena obbedisce ai criteri della classicità hollywoodiana […] ne segue un’altra caratterizzata da opzioni formali di segno opposto, […] la cui ambiguità l’intreccio non provvede a chiarire, semmai soltanto ad amplificare».
Una decisa sterzata verso questa idea di sospensione “strutturale” della realtà scenica e diegetica la diede Fritz Lang, in particolare con La donna del ritratto (del 1944), dove si attesta la voluta (e geniale) «rinuncia, da parte di Lang, alle consuete opzioni stilistiche che segnalavano, nel cinema classico, il passaggio a uno stadio onirico», poi compensata da un sottile esercizio di destabilizzazione visiva e narrativa tramite indizi sempre più anomali ed evoluzioni sempre più implausibili. Effettivamente, nel finale di La donna del ritratto l’ambiguità sembrerebbe dissolversi, poiché la strana avventura del protagonista finisce per essere presentata – appunto – come un lungo e agitato sonno, ma è proprio la mancanza di una qualche segnalazione stilistica (cioè, in tal caso, di una dissolvenza chiarificatrice, di un carrello ottico che faccia da transizione o di uno stacco di montaggio che funzioni da spartiacque) che alimenta i dubbi a dismisura attraverso l’atto stesso con cui fa finta di cancellarli.
Una costruzione simile caratterizza anche un altro celebre film dello stesso Lang, ovvero La strada scarlatta, uscito appena l’anno dopo, in cui però, a differenza di quanto avveniva nell’opera precedente, il maestro non si premura neppure di chiudere il cerchio: alla fine dei giochi, non c’è alcuna rivelazione sulla possibile natura onirica di ciò a cui si è assistito, condannando così lo spettatore a un ineludibile senso di frustrazione, anche legato al «delirio soggettivo» del protagonista, che ormai, esattamente come il pubblico, non è più nemmeno certo di ciò che ha fatto (o che non ha fatto).
Anche La donna fantasma (uscito lo stesso anno di La donna del ritratto e diretto da Robert Siodmak) si snoda in una maniera piuttosto analoga, così come La finestra socchiusa (1948) di Ted Tetzlaff, il cui stile sostanzialmente documentaristico della parte introduttiva è poi resettato dal sopraggiungere di un evento inquietante (un probabile omicidio scorto dalla finestra dal bimbo Tommy, che fra l’altro si è appena svegliato nel cuore della notte) che tinge le immagini di ansia e timore, con l’illuminazione che da uniforme diventa contrastata e con l’ambientazione (un caseggiato della New York popolare) che incamera suggestioni addirittura gotiche. Ma l’incertezza regna sovrana, perché tutto potrebbe essere il semplice frutto della fervida immaginazione del piccolo protagonista, desideroso di essere creduto dai genitori e perciò propenso a inventarsi un’odissea (che probabilmente Freud inserirebbe nella «categoria dei “sogni spiacevoli”, che costituiscono nondimeno “appagamenti di desideri”») con cui sconfiggere paure tipicamente infantili come quella del buio e quella del vuoto (su cui si basano le più importanti sequenze di tensione all’interno del film) e con cui dimostrare di poter essere finalmente preso sul serio nel proprio ambiente familiare.
Un po’ diverso il discorso che riguarda invece Vertigine (1944) di Otto Preminger. Come in La donna del ritratto, anche qui è l’immagine pittorica di una donna a innescare il processo onirico: anche in questo caso, fa tutto parte di un’allegoria sul cinema stesso, capace di mettere in moto il principio di piacere e di far fluire i desideri a briglia sciolta. Ma i differenti punti di vista del romanzo sono sostituiti nel film da un meccanismo di sdoppiamenti e di «forme soggettive complesse» sorrette però da un’«unità stilistica» che parrebbe suggerire la «totalità del regime onirico o immaginario», anche perché l’intero racconto trae sostanza «dal nero dello schermo», attraverso una voce «senza origine» che comincia a narrare ciò che poco dopo si materializza nell’immagine, rendendo definitivo l’effetto di disorientamento e impossibile un tentativo sensato di collocazione del «tempo (perduto) della storia […] rispetto a un tempo in cui ha luogo la rimemorazione». Non a caso, il tipico luogo in cui i tempi si confondono e si mescolano è proprio la mente addormentata.
Arrivati al termine di questo corposo excursus attraverso le varie declinazioni e sfaccettature dell’onirismo nel noir hollywoodiano degli anni Quaranta, non resta che tornare al punto in cui tutto iniziò, ovvero a Il mistero del falco, considerato (non a torto, da un certo punto di vista) l’iniziatore ufficiale dell’intero genere (nonché uno dei suoi più grandi caposaldi), e confermare la sottigliezza della sua programmatica battuta di chiusura, ormai diventata immortale: in effetti, proprio come il celeberrimo falcone maltese del romanzo di Hammett, il noir è fatto «della stessa materia di cui sono fatti i sogni».
Simone Trevisiol