Si è conclusa da quasi una settimana ormai la diciannovesima edizione del Florence Queer Festival, festival di cinema a tematica LGBTQI+ ospitato dal Cinema La Compagnia. Sei giorni di proiezioni di lungometraggi, cortometraggi e documentari (visibili anche online) provenienti da tutto il mondo, talvolta accompagnati anche dalla presenza del o della regista in sala per approfondire ciò che veniva proiettato e raccontare tutto quello che c’era stato dietro al progetto.
Il cinema però non è l’unica cosa di cui il festival si occupa; nel FQF sono infatti inseriti anche eventi riguardanti la letteratura e talk di approfondimento, oltre ad incontri con le scuole ideati per offrire uno spazio sicuro ed aprire un dialogo con studentu sull’orientamento sessuale, l’identità di genere, il coming out e le discriminazioni.
L’intero festival è organizzato da IREOS, associazione di volontariato LGBTQI+, che oltre ad occuparsi del festival, durante l’anno offre anche numerosi servizi come test HIV anonimo e gratuito, consultorio, incontri e progetti educativi nelle scuole di Firenze.
Ho avuto il piacere di fare due chiacchiere con Bruno Casini, direttore artistico del festival insieme a Roberta Vannucci, che dalla prima edizione ormai fa parte di questo progetto.
Siamo ormai arrivati alla diciannovesima edizione del Florence Queer Festival. Come si è evoluto il festival in questi anni e com’è cambiato il modo di recepirlo del pubblico?
Questi diciannove anni sono stati per me un viaggio incredibile. La prima edizione l’abbiamo fatta al teatro Puccini nel maggio 2002, durava due giorni. Io e Paolo Baldi siamo i fondatori di questo festival e io sono l’unico rimasto dalla prima edizione fino a quest’ultima, quindi ne ho viste passare di persone che lo hanno seguito.
La prima edizione è stata molto più underground, poi nel corso degli anni è diventato un po’ più fashion, più blogger, e infatti ci hanno iniziato a contattare non solo riviste lgbt+, ma anche quelle di costume, di musica, di teatro. Insomma, il festival è cresciuto. All’inizio poi facevamo solo cinema, solo in seguito abbiamo iniziato a fare le mostre, i talk, gli incontri. Purtroppo le mostre in questi ultimi due anni con la pandemia non abbiamo potuto farle, però la nostra filosofia è quella del cinema intorno a tutte le altre discipline e a tutte le altre arti, per questo abbiamo inserito anche la letteratura, i focus, i talk e gli approfondimenti.
Il pubblico, fin dalla prima edizione, è sempre stato abbastanza misto, troviamo sia molti giovani, sia persone più mature. Alcuni poi ci seguono dalla prima edizione, sono invecchiati con noi. Anche quest’anno c’era un po’ un mix, anche se la componente giovanile era particolarmente forte. In ogni caso le due generazioni hanno seguito il festival in questi diciannove anni.
Ciò che all’inizio era molto diverso era tutta la parte della promozione e della comunicazione. Nel 2002 dato che i social non erano ancora esplosi, tutto era basato principalmente sul semplice passaparola. E infatti in quei due giorni non furono presenti tantissime persone, ma nonostante questo la prima edizione rimane per me la più bella, ne ho uno splendido ricordo.
L’idea ci è nata perché andavamo tutti gli anni al festival di Torino (il Lovers Film Festival, che conta ormai più di trenta edizioni), e ad un certo punto siamo arrivati a pensare che un festival del genere sarebbe stato interessante anche a Firenze. E così è iniziato tutto.
Come avviene la selezione del materiale proiettato? In che modo e secondo quali criteri viene scelto che cosa mostrare in sala?
Noi tutti gli anni abbiamo una moltitudine di contatti, ormai storici, con una serie di agenzie di distribuzione internazionali (americane, spagnole, francesi, tedesche, inglesi). Purtroppo invece la produzione italiana è molto carente sotto questo punto di vista, non esiste molto materiale. Per prima cosa le varie agenzie ci mandano i link per vedere i film. Durante il festival viene organizzato anche un contest per i cortometraggi, Videoqueer , concorso che facciamo dalla prima edizione; per questo ogni anno ci arrivano decine e decine di proposte. Per questa edizione, tra i circa centoquaranta corti che ci sono arrivati, ne abbiamo scelti una decina, provenienti da otto Paesi diversi.
Anche per i lungometraggi solitamente ci arriva tanto materiale, io quest’anno ho visto centottanta film, contando anche che c’è stata un po’ di carenza di proposte da parte di qualche agenzia. Ne abbiamo scelti diciassette; è necessario fare una scelta accurata, perché per mostrare tutto altrimenti avremmo dovuto fare un festival di venti giorni e purtroppo i sostegni economici non sono molti, infatti siamo tutti volontari.
Abbiamo una rete di persone che vedono una serie di film e ci dicono cosa ne pensano. Ci basiamo solitamente su tre paramentri: leggerezza, riflessione e impegno, questi sono i tre elementi su cui vogliamo lavorare. Vogliamo che le persone si divertano, che riflettano e che capiscano che tipo di impegno facciamo attraverso il cinema raccontando anche quello che succede nel mondo, le culture lgbt+, l’omofobia, la transfobia, l’emarginazione, l’HIV. Facciamo divertire e riflettere. Inoltre ciò che proiettiamo al festival, la maggior parte delle volte non va in distribuzione in Italia, ed è per questo che cerchiamo di far vedere cose nuove, che poi non vengono proposte sul mercato.
Il festival è stato aperto con la proiezione di Disco Ruin di Lisa Bosi, che racconta circa cinquant’anni di storia del clubbing in Italia. Tu nel documentario sei presente e questi anni te li sei vissuti tutti. Facendo un confronto tra ieri e oggi, come pensi che si siano evoluti i vari club fiorentini? E com’era la situazione a Firenze per quanto riguarda i locali queer o comunque frequentati principalmente da persone non cishet?
Il mondo dei gay club negli anni Settanta era molto specifico: c’era il Tabasco, discoteca gay che nasce a Firenze nel ’74, riservato esclusivamente ad omosessuali. Era l’unico locale in città, esistevano oltre a quello solo luoghi all’aperto, dove l’incontro era solo omosex. Per gli incontri tra donne esisteva un altro circuito, ma era molto criptico, molto specifico. Poi negli anni ’80 è arrivata la contaminazione, e luoghi come per esempio il Tenax sono diventati molto friendly, ci andavano un po’ tutti. Alex Neri Dj, durante il talk, raccontava che negli anni Duemila, le serate al Tenax chiamate Nobody’s perfect! erano super lgbt+ e c’era un pubblico molto misto. Per intenderci la Muccassassina (una delle serate queer più conosciute in Italia) al Qube di Roma oggi, è frequentata per la maggior parte da persone etero. In generale noto che nei club oggi c’è questa grande curiosità del pubblico etero verso le serate lgbt+, forse perché le trovano più libertine, scatenate, curiose e divertenti, questo non lo so. Negli anni ’70 invece chi non era gay non si avvicinava nemmeno al Tabasco, ma anzi guardava male quelli che ci andavano.
Uscendo dal contesto lgbt+ invece, nel documentario viene fatto un discorso molto interessante sul club. Nel senso, i club negli anni ’70, ’80, ’90, avevano tutti un appeal molto culture, di cultura, cosa che invece oggi si è forse un po’ persa. Anche l’animazione era importante ai tempi. Non c’è più la sperimentazione, come descrive la regista di Disco Ruin Lisa Bosi, di allestimenti, di concerti, di musica, di performance, di istallazioni multimediali. Cose che poi rimanevano.
La riflessione interessante è chiedersi: cosa succede alla club culture oggi? In questo momento è vero che siamo nelle sabbie mobili del Covid, ma quando riapriranno le discoteche che succederà?
Durante il festival sono stati presentati due documentari su cui mi vorrei soffermare: Coming Out di Denis Parrot e Famille tu me hais di Gaël Morel. Il primo racconta, attraverso una serie di video postati sul web, il momento del coming out, principalmente con la famiglia, e tutto quel che ne consegue, sia in modo positivo che negativo. Il secondo invece si concentra su ragazzə cacciatə di casa a causa del loro orientamento sessuale o della loro identità di genere. Pensi che nel 2021 ci sia ancora bisogno di mostrare storie come queste o che sia una fase ormai superata, che si possa andare oltre?
Purtroppo questa fase è tutt’altro che superata, basta guardare quello che succede intorno a noi. Ci fa capire che ancora, soprattutto in Italia, siamo indietro, se confrontati anche al resto d’Europa. Noi sentiamo solo una piccola parte di quello che succede, ascoltiamo solo le storie delle persone che hanno il coraggio di condividere e denunciare, perché tanti ragazzi non hanno ancora la possibilità di raccontare quello che gli succede; purtroppo però esistono tutt’oggi tante situazioni come quelle mostrate. E penso che sia proprio per questo che è importante raccontare storie del genere anche nei documentari, per far vedere che, anche se siamo nel 2021, i ragazzi vengono ancora cacciati di casa, insultati e picchiati perché gay.
Sono cose a cui teniamo molto queste, perché spesso non ci rendiamo conto di quello che succede intorno a noi. Io per vivere faccio uffici stampa per concerti Jazz, quindi lavorativamente parlando sono fuori dal mondo queer. E quando esci da questo mondo ti rendi conto che c’è ancora tanta gente che ragiona in maniera molto ottusa. Atti omofobi continui. La colpa è ovviamente anche della politica, basta guardare la Lega di Salvini come si comporta. Negli anni ’70 c’erano pregiudizi anche nei partiti di sinistra; io perché mi facevo uno spinello ed ero omosessuale fui processato da Lotta Continua, fui radiato per mesi dall’organizzazione. Sotto quel punto di vista oggi la situazione è certamente migliorata, ma le ottusità latenti continuano ad esserci anche all’interno dei partiti di sinistra, basta guardare cosa avviene all’interno del PD.
E tutto questo rende ancora maggiore l’importanza del racconto e della testimonianza.
Irene Bechi