In occasione dei 120 anni dalla nascita di Dalì, pochi giorni fa l’11 maggio 2024 (Dali era nato a Figueres l’11 maggio 1904), celebriamo il grande autore surrealista con questa rivisitazione di un articolo di qualche tempo fa sul rapporto dell’artista con il cinema!
Da Bunuel a Hitchcock a Disney!…
Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech. Più conosciuto come Dalì. E più conosciuto come pittore e scultore. Tuttavia non si deve dimenticare l’impegno di Dalì in molti altri ambiti artistici. Il Teatro, con la realizzazione di scenografie e costumi, ma anche l’oreficeria, la grafica, la pubblicità, la moda, la fotografia e naturalmente il Cinema. Una passione, quella per la forma cinematografica, che si trova più volte nella carriera dell’artista spagnolo, fin dai suoi anni giovanili. Già il suo primo approccio al Cinema diventa un progetto leggendario. Nel 1929 infatti Dalì collabora con il regista surrealista Luis Buñuel alla realizzazione del cortometraggio Un Chien andalou.
Il suo contributo principale consiste nell’aiutare Buñuel, il quale sarebbe di li a breve diventato uno dei più influenti registi della sua generazione e fino agli anni ’60, a scrivere la sceneggiatura. Tuttavia in seguito (e soprattutto dopo il litigio che allontana i due artisti) Dalì rivendica la realizzazione tecnica del progetto. Possiamo dire che con L’Âge d’or dell’anno successivo, seconda collaborazione con Buñuel, Dalì crea un esempio di effetti visuali in movimento che lo rendono forse fra i primi videoartisti della storia insieme a Fernand Léger che alcuni anni prima, nel 1924, dirigeva Ballet mécanique, forse l’unico esempio pervenutoci di “cinema cubista” dove le forme geometriche si vanno a scontrare e intersecare in movimentate situazioni da vera videoarte.
Non si deve dimenticare che è dello stesso anno anche la pubblicazione del primo Manifesto Surrealista, in cui André Breton (teorico della corrente artistica) dimostra l’interesse da parte dei surrealisti per il cinema, definito “un occhio artificiale capace di riprendere uno spazio virtuale in cui immagini e realtà si fondono”. Dalí ad ogni modo va oltre e vede nel cinema il mezzo per fare incontrare le dimensioni del sogno e della realtà.
Buñuel e Dalì
Il periodo surrealista nel cinema. Collaborazione con Luis Buñuel
Ma torniamo a Un Chien andalou, concepito nel 1929. Dalì e Buñuel. I due si erano conosciuti da poco alla Residencia de Estudiantes di Madrid e subito progettavano questo baluardo del cinema surrealista. Proiettato per la prima volta il 6 giugno del 1929 allo Studio des Ursulines di Parigi davanti agli esponenti del movimento surrealista, il film è un susseguirsi di immagini provocanti che mirano a destabilizzare e scandalizzare lo spettatore. Buñuel spiegò che tutte le immagini erano l’incontro scontro di sue idee personali e di altre di Dalì, o meglio, l’incontro di due sogni. La scena della mano piena di formiche è un sogno-idea di Dalì. Il coltello che taglia un occhio, un suo sogno-idea.
Buñuel afferma che la sceneggiatura è stata scritta in meno di una settimana, seguendo una sola regola. Non proporre idee in grado di condurre a una spiegazione razionale al fine di creare associazioni casuali, inconsuete, volatili. Ma anche allontanarsi quando più possibile da una narrativa lineare. Associazioni concettuali libere, caratterizzate da immagini veloci e in continua trasformazione. Alcuni elementi comuni fra le varie idee-sogno tuttavia esistono. Una dimensione onirica, una psicoanalitica, la tensione erotica. L’Âge d’or invece, al contrario del primo film, presenta un certo labile filo narrativo. Due amanti che cercano di “consumare” la propria relazione vengono continuamente ossessionati dalle convenzioni borghesi e dai tabù sessuali imposti dalla famiglia, dalla chiesa e dalla società. Qui è presente una forte critica ai valori dominanti della società del tempo. Patria, religione e convenzioni sociali.
Qualcosa di mai visto prima
I due film del binomio Dalí-Buñuel vogliono essere e di fatto diventano qualcosa di mai visto prima. Scandalizzano e insieme disorientano. Attraggono e insieme respingono. Lo stesso interesse nell’attrarre e poi respingere anche con repulsione l’occhio dello spettatore, caratterizzerà tutta la vita di un altro grande maestro del cinema mondiale con cui Dalì lavorerà poco meno di 20 anni dopo: Alfred Hitchcock. Con modalità del tutto diverse e seguendo invece un punto di vista non surrealista ma narrativamente classico. Senza però non nascondere retro significati altamente psicologici in uno dei primi film sulla psicanalisi: Io ti salverò (Spellbound) del 1946.
Ci arriveremo fra un attimo. Ma c’è prima un ultimo passaggio del rapporto con il regista connazionale Buñuel. Nelle intenzioni di Dalì Babaouo avrebbe dovuto costituire l’ultimo atto di una trilogia surrealista. Diventando la massima espressione delle sue ossessioni e del suo manifesto cinematografico surrealista. Tuttavia nel 1932 Dalì si era irrimediabilmente offeso del mancato riconoscimento del suo contributo ai due film precedenti. La rottura con Buñuel fu insanabile poiché nonostante le molte idee e suggestioni che l’artista catalano aveva continuato a scrivere per lettera al “collega”, poco gli era stato riconosciuto. I dissapori erano così cominciati durante la produzione del film ed erano culminati alla sua uscita, quando nei titoli Dalì appariva solo come mero cosceneggiatore. Nel 1932 così, il progetto per Babaouo naufragò. Ad ogni modo Dalì certamente non fu in grado di portarlo avanti da solo come regista.
Il film con Alfred Hitchcock
A metà degli anni ’40 arriva dunque la nuova occasione per toccare il cinema, desiderio che ad ogni modo non si era mai spento nell’animo creativo di Dalí. All’epoca Alfred Hitchcock aveva appena girato due dei suoi film più riusciti, L’ombra del dubbio e Prigionieri dell’oceano (tutto ambientato in una scialuppa di salvataggio dopo un naufragio) e si era impegnato nella realizzazione di alcuni corti e documentari di propaganda bellica. La guerra era appena finita e il suo prossimo film avrebbe trattato un argomento delicato come la psicanalisi, forse primo esempio alto nella cinematografia a toccare il tema. Al suo primo film con una delle attrici che sarebbero diventate definibili “hitchcockiane”, Ingrid Bergman.
Hitchcock affrontava così la stesura del soggetto tratto dal romanzo La casa del dottor Edwardes di Francis Beeding e fortemente voluto dal suo produttore, David O. Selznick (reduce dal successo di Via col vento e Rebecca). Nel film la Bergman lavora in una clinica psichiatrica. Gregory Peck viene introdotto come nuovo direttore e lei se ne innamora immediatamente per poi scoprire che questi soffre di amnesia e che forse non è il vero dottor Edwardes, ma in ipotesi proprio il suo assassino che tenta di sostituirlo. Nel tentativo di capire l’enigma la Bergman, aiutata da un vecchio professore, lo sottopone a sedute di psicanalisi dove il finto Edwardes in trance, ricorda. Ed è qui che entra in scena Dalí.
Ricordi che si fanno concreti
Hitchcock insiste con Selznick perché sia l’artista catalano a rappresentare con le sue idee le scene dei ricordi e dei sogni del personaggio di Gregory Peck. Selznick era contrario e detestò le idee di Dalí ma, come quasi sempre accadde nella sua carriera, Hitchcock impose la sua scelta. Ricorda Elliot King nel suo Dalì, Surrealism and Cinema. “Nonostante Dalí continuasse a proporre sceneggiature ai registi, nessuna di queste si concretizzò mai realmente. Il film di Hitchcock fu la prima vera occasione per fare alcune delle cose per cui Dalì aveva aspettato per più di 15 anni”.
Hitchcock in una delle sue interviste.
Selznick pensava che volessi Dalì solo per motivi pubblicitari. Non era vero; pensavo che dovendo fare delle riprese di un sogno queste dovessero essere di grande effetto. Pensavo che non avremmo dovuto ricorrere all’effetto annebbiato troppo vecchio stile che si otteneva spalmando vaselina sull’obiettivo. Quello che avrei veramente voluto fare e che non ho potuto fare a causa dei costi era riprendere le scene del sogno alla viva luce del sole negli esterni dello stabilimento. Però ho usato Dalì per le sue qualità di disegnatore. Volevo realizzare i sogni con grande chiarezza e intensità visiva più intensi del film stesso. Giorgio de Chirico aveva le stesse qualità, le lunghe ombre l’infinità della distanza e la convergenza delle linee prospettiche.
Gli elementi in comune tra Dalì e Hitchcock
Sicuramente il genio del cinema e Dalì due cose in comune le avevano: talento personale e capacità di auto promozione. Nei rispettivi campi artistici, questo mix di capacità e spettacolarizzazione di se stessi e della loro immagine, li ha portati all’apice di tutto il conquistabile. Fra settembre e ottobre del 1945 passarono insieme molto tempo e Dalì realizzò 100 schizzi e cinque dipinti a olio da consegnare allo scenografo perché fossero prodotti.
La trasposizione in immagini di tutti i simboli onirici immaginati per intero da Hitchcock fu realizzata da Rex Wimpy (che collaborerà ancora con Hitchcock in altri film e in particolare modo in Psycho, il cui titolo di lavorazione sul set 15 anni dopo, nel 1960 fu proprio Wimpy e non Psycho; ho scritto un articolo a riguardo qui www.nerdream.it/2020/11/22/dentro-la-doccia-di-psycho-speciale-60-anni-di-un-capolavoro/) specializzato in effetti speciali. Le idee di Dalì invece come spesso accaduto altre volte nella sua carriera erano troppo grandi e megalomani per poter essere realizzate interamente.
3 minuti onirici
Dalì fu chiamato in quanto massimo esperto nella rappresentazione figurativa del materiale onirico, ma le sue idee erano così tante che per realizzarle e metterle in scene nella loro interezza sarebbero occorsi 20 minuti di film. Ne vennero realizzati solo tre minuti totali. Non solo per un problema di minutaggio ma anche per l’impossibilità tecnica, per l’epoca, di realizzare in film molte delle sue idee (Hitchcock e i suoi scenografi e addetti agli effetti speciali per esempio non avrebbero mai potuto realizzare una scena in cui venti pianoforti aleggiano sulle teste di circa cento ad un ballo di corte, così come l’aveva immaginata Dalì o la scena in cui il corpo della protagonista, Ingrid Bergman, sarebbe stato ricoperto di formiche!) Ma la mano dell’artista è evidente in ogni fotogramma.
Qualche tempo dopo Dalì, nonostante l’ottimo rapporto con Hithcock, che era un suo grande estimatore, parlò del film con distacco. “Un bel lavoro, in cui le parti migliori sono state tagliate”, dichiarò. Ad ogni modo la sequenza divenne un vero e proprio cult: occhi giganti che spuntavano dai tendaggi e che venivano tagliati dalle forbici (vi ricordate il taglio dell’occhio in Un chien andalou?), uomini senza volto e oggetti dai bordi contorti. Allo spettatore sembrava di stare dentro uno dei suoi dipinti. La scena del sogno oltre a risultare innovativa e mai realizzata prima in quel modo, era cruciale e di fondamentale importanza per lo svolgimento e lo scioglimento della trama del film. Tutti gli elementi del sogno di Gregory Peck hanno un significato preciso che verrà svelato nel finale del film. E la psicanalisi: l’inconscio sottoposto al processo di interpretazione scientifica. E artistica, in questo caso.
Il film con Walt Disney
Conclusa l’esperienza con Hitchcock Dalì ebbe modo di lavorare negli studi di Burbank, alla sede della Walt Disney Company. Per la casa di produzione Disney il pittore crea disegni, schizzi e storyboard per un cortometraggio d’animazione che, secondo l’idea del papà di Mickey Mouse doveva far parte di vari cortometraggi che sarebbero andati a comporre un lungometraggio di animazione, un po’ come Fantasia pochi anni prima. Come in Fantasia anche qui la musica avrebbe ispirato le immagini. Sulle note di una canzone del compositore messicano Armando Domínguez intitolata Destino, Disney crea la storia di una ragazza in cerca del vero amore.
Dalla mente di Dalì nasce così un viaggio onirico che porta questa ballerina e donna mortale ad innamorarsi di Chronos, personificazione del tempo e dell’amore, sviluppato poi come un giocatore di baseball che gioca con la sua testa come fosse una pallina. Purtroppo il progetto naufragò. Fantasia non era stato accolto molto candidamente pochi anni prima e proporre un lavoro simile non sarebbe stata una buona idea. Così Disney si concentrò sulla realizzazione del film I tre caballeros e il progetto in cui avrebbe visto la luce Destino non fu più preso in considerazione.
Un progetto recuperato
Nel 2003 grazie al materiale originale di Dalì, conservato presso i Walt Disney Animation Studios di Burbank in California, e grazie alla volontà del nipote di Disney, Roy Edward Disney (che nel 1999 lavorando a Fantasia 2000 aveva non a caso rinvenuto questo materiale), al regista Dominique Monfery fu affidata la realizzazione di Destino. Uno splendido cortometraggio di 7 minuti, oggi visibile anche sulla piattaforma della casa di Topolino, Disney+.
Dopo Bunuel, Hitchcock e Disney gli interventi di Dalì nel cinema furono quasi esclusivamente di tipo documentaristico e riguardanti il suo lavoro come pittore e creatore di performance live. Nel 1960 con “Chaos and Creation”, un docufilm di 18 minuti sulla realizzazione di una performance artistica di Dalì stesso. Nel 1965 con “Dalì in New York”, una sorta di video intervista dove l’artista parla della realizzazione delle sue opere e performance dal vivo.
Collaborazione con Andy Warhol
Nel 1966 Dalì fu invece immortalato in due corti di 4 minuti della serie Portraits di Andy Warhol. Gia da tempo l’artista statunitense era solito immortalare soggetti di rilievo come Lou Reed, Bob Dylan, Dennis Hopper, Marcel Duchamp e molti altri in dei ritratti video. Dalì viene rappresentato capovolto in uno dei due “ritratti”. Sempre nel 1966 il regista Jean-Christophe Averty realizza un documentario in cui Dalì apre le porte della sua casa e per 70 minuti ci mostra il luogo in cui vive, il modo in cui lavora e il suo rapporto con la compagnia di una vita, Gala. Il lavoro, dal titolo “Autoportrait mou de Salvador Dalì” diventa anch’esso una lunga intervista del regista all’artista.
Dalí attore in un film colossale: DUNE
Passano 7 anni e una strana e allettante occasione si presenta al grande artista catalano. Il regista Alejandro Jodorowsky ha deciso di portare Dune, il famoso romanzo di fantascienza di Frank Herbert, sul grande schermo. Visionario quanto Dalì, Jodorowsky pensa a un cast stellare in cui vede Dalì l’unica persona che possa interpretare come attore l’imperatore del mondo di Dune. Dalì, inizialmente restio, accettò di interpretare l’Imperatore Padishah per 100mila dollari ogni ora di riprese.
Anni dopo Jodorowsky stesso dichiara che l’artista non era tanto elettrizzato dalla parte quanto dal fatto che sarebbe diventato con quel cachet l’attore più pagato di tutti i tempi. Dune doveva diventare un film mastodontico e fra i vari interpreti il regista era riuscito ad accaparrarsi nomi come Orson Welles nel ruolo del Barone Harkonnen e poi ancora David Carradine, Geraldine Chaplin, Alain Delon, Gloria Swanson, Mick Jagger. Il film non vide mai la luce. Per approfondire sull’epopea della produzione di questo film ho scritto un articolo qui. https://www.nerdream.it/2020/10/12/speciale-dune/
L’ultimo film, a metà fra fiction e documentario
Passano altri tre anni e nel 1976 il regista José Montes-Baquer realizza il film documentario “Impressions de la Haute Mongolie – Hommage à Raymond Roussel”. Dalì vi partecipa come estimatore di Raymond Roussel scrittore, drammaturgo e poeta francese, precursore del surrealismo. Il film parla di una spedizione in Mongolia volta a scoprire i funghi allucinogeni. Dalì si occupa della realizzazione delle sequenze di allucinazioni, che spesso descrive lui stesso come voce off. Si tratta anche di una nuova video intervista dove vediamo nuovamente la casa di Dalì e l’artista a lavoro. Luci e colori si susseguono nella scena delle allucinazioni ed è davvero difficile non pensare al viaggio nello spazio del 2001 di Kubrick di 7 anni prima.
Ritorno al surrealismo postumo
Nel 1997 su uno script originale di Salvador Dalì il regista Manuel Cussó-Ferrer realizza a più di 60 anni di distanza dal progetto, il film Babaouo. 66 minuti di durata in cui si narrano le vicende di questo Babaouo – la parola significa qualcosa come “sempliciotto” o “innocente”. Una storia stranamente convenzionale, facendo parte, idealmente e solo per Dalì, della trilogia surrealista con Bunuel. Ma ovviamente piena di eventi strani e irrazionali che deviano continuamente la progressione lineare della trama. L’azione del film, come indicava Dalì nella sceneggiatura, “si svolge nel 1934 in qualsiasi paese d’Europa, durante la guerra civile”.
Babaouo, alla ricerca della sua amata Matilde, che gli ha inviato una lettera da un castello in Portogallo, chiedendo il suo aiuto, si mette in viaggio verso il misterioso castello, e dopo numerosi incontri fortuiti e strane situazioni lungo il percorso trova finalmente la sua amata, con la quale riesce a scappare. Hanno un incidente in auto e Matilde muore. Babaouo rimane cieco. Rifugiatosi in un villaggio della Bretagna, qualche tempo dopo riacquista la vista e diventa un artista, finché un giorno, in uno dei suoi quotidiani giri in bicicletta, viene assassinato.
Chissà cosa avrebbe fatto Dalì nella messa in scena di un plot simile e quanto si accosta realmente al suo pensiero la messa in scena cinematografica del 1997. Non potremo mai saperlo realmente. Così come non riusciremo mai forse ad intuire come sarebbe stato il suo Destino se fosse stato realizzato o la scena del sogno di Spellbound di 20 e non di tre minuti, come quelli poi realizzati. Non sapremo neanche mai quanto Dalì sarebbe stato grande e geniale nell’interpretazione dell’imperatore di Dune. Ma possiamo solo immaginarlo, come in un sogno.
Conclusioni
In tutta la sua vita Dalì, come dimostrato, tenta un approccio al cinema, sia esso diretto o indiretto, sia in forma di contributo che come protagonista, soggettista, ideatore di scene o scenari. Con i bozzetti, le idee, le scenografie realizzate o solo immaginate, le storie, i sogni. Dalì non ha mai smesso di tendere al cinema, seppur spesso senza il successo che avrebbe desiderato in questa forma d’arte. Tuttavia, possiamo dire con certezza che essersi costantemente messo alla prova con un linguaggio, quello cinematografico, ben diverso da quello pittorico ha dato vita anche nella settima arte a una serie di immagini inequivocabilmente riconoscibili come daliniane. Immagini che rimangono indelebili negli occhi dei fortunati spettatori, come in quelle di chi si trova di fonte ad un quadro del maestro in un museo.
Stefano Chianucci