La morte è sempre una tragedia. Sia che avvenga drammaticamente per cause non naturali che per quelle naturali. Quindi, il senso della tragedia è inevitabile avendo questo senso della morte.
– A.Camilleri
Qualsiasi cosa da noi rischia di finire “a schifiu”, termine che sta a significare “a tragedia”. C’è una bellissima pagina di uno scrittore siciliano che si chiama Vitaliano Brancati che dice: Guardate la fotografia di una giovane mamma siciliana che tiene fra le braccia il bambino da lei partorito. Se guardate attentamente gli occhi di questa donna, vi accorgete che non sono occhi felici, occhi contenti. Sono occhi preoccupati. Perché già quella giovane donna si domanda: Che destino avrà mio figlio? verso quali sventure la sua vita lo porterà?” Il siciliano non pensa a ciò che di bello potrà avere dalla vita, pensa a ciò che di male potrà avere dalla vita.
Queste parole sono di Andrea Camilleri. Dette durante un’intervista condotta per il film-reportage: Prove di Una tragedia Greca di John Turturro. Il maestro ci conduce in un’atmosfera soffusa nel cuore della mentalità di un popolo. Benché il 2 novembre sia già terminato, coerentemente con il principio del ricordare il passato, in questo lunedì si affronta il tema della tradizionale commemorazione dei defunti. Che in Sicilia prende il nome di: Festa dei morti. Perché è proprio una festa di cui si tratta.
<<Quand’ero bambino io, ricevevamo i regali il 2 novembre mattina, cioè a dire, il giorno dei morti. Perché la tradizione voleva che in quel giorno, i morti, durante la notte precedente, fossero tornati nelle loro case a portare i regali ai loro discendenti. Come si svolgeva questo rito? Prima di andare a letto mettevamo sotto lo stesso, un canestrino e aspettavamo fino a quando non ci addormentavamo, che il morto di casa o la morta di casa alla quale avevamo scritto una letterina, come si fa oggi con Babbo Natale, ci portasse i regali. I dolci e il regalo che avevamo chiesto. Nessuna paura di un morto anzi la voglia di averlo in qualche modo presente. Poi si crollava abbattuti dal sonno e quindi bisognava andare la mattina appena svegliati, alla ricerca di questo cestino. Era bellissimo. La ricerca dei regali era una cosa fantastica. Finalmente trovavi il cestino sopra un armadio, nascosto da qualche parte e poi si andava tutti insieme al cimitero per ringraziare il morto che ci aveva portato i regali. Quindi succedeva che quel cimitero, il 2 novembre si animava come a festa, Perchè noi bambini nei vialetti ci scambiavamo i doni: “Mi fai provare la tua bicicletta? Tu mi fai provare la tua pistola?” Ed era il giorno dei morti una festa meravigliosa. Poi nel 1943 arrivarono gli Americani. Lentamente, i morti persero la strada di casa e vennero sostituiti dall’albero di Natale… >>.
I dolci di cui parla Camilleri sono per tradizione siciliana, la frutta martorana e i pupi di zucchero. Una tradizione dei fatti ancestrali. Spagna e Sicilia, di fatto celebravano, prima del Natale, questa grande festa, quella dei morti, dove si banchettava in grandi tavolate persino nei conventi delle monache di clausura. In questo vi si ritrova un concetto atavico legato all’impossibilità di accettare che la vita si interrompa. Una mentalità che si traduce nel fare quotidiano. Una propensione ad attaccarsi sempre a qualcosa e possedere un motivo per non perdere la ragione. In quest’ottica il pessimismo convive con l’ottimismo in una linea sottilissima. Questo racchiude in sé una teatralità di vivere la vita che diventa palcoscenico ideale per recitare i comportamenti di un popolo e la loro filosofia. Si inscenano le tenerezze umane attraverso drammi e riti collettivi.
Emma Dante, regista e drammaturga siciliana, sa ben tradurre i costumi della sua terra. In queste ultime settimane, per la stagione, ha portato in tour uno dei suoi spettacoli teatrali, chiamato per l’appunto: Pupo di zucchero.
Si mostra la storia di un anziano malconcio e solitario. Il 2 novembre, immerso nella sua casa vuota, prepara la tipica pietanza dell’occorrenza: Un pupo di zucchero. – Acqua, farina, zucchero, impastare, attendere il tempo di lievitazione. – Sarà proprio durante quest’attesa che l’anziano inizia a ricordare i propri morti. I suoi cari. Ed è un attimo che quella casa così buia e apparentemente stretta, si anima della memoria della sua mamma, delle sue sorelle: Rosa, Primula e Viola. Dello zio Antonio e della zia Rita. Di Pasqualino e il cagnetto… si addobba a festa e la casa diventa una sala da ballo in cui nell’azione di danzare, tutto prende vita, tutto diviene rito. Si attraversano i ricordi, le emozioni, le sensazioni di un passato che non smette di esistere grazie al perpetuarsi di questa tradizione. Un’identità ritrovata. Un’umanità così fragile e sincera allo stesso tempo. L’abilità del narrare ancora queste sfumature in una chiave così poetica e sofisticata è una nota oltre che rara, allo stesso tempo importante.
Forse per qualcuno questi riti potranno apparire sorpassati o superabili ma rappresentano ancora il seme di una semplicità nascosta nel caos della modernità. Perché mentre tutto corre confluendo in nuove direzioni, quelle passate rischiano di rimanere indietro, dimenticate. Ma sono proprio quelle che alimentano la Storia e di conseguenza influenzano il contemporaneo. Per cui, così come l’atto teatrale insegna, bisogna che il racconto non manchi di quella immedesimazione con ciò che si rappresenta. Bisogna che la fine conduca al ricordo dell’inizio, al perché e al come siamo arrivati fin qui. Nelle tragedie la morte viene riconosciuta e condivisa e non tanto per esorcizzarla quanto per non dimenticarla. Ad oggi, la nostra cultura, sembra evitare l’argomento. Allora, in un certo senso, la tradizione del 2 novembre si pone in un’ottica più consapevole ed equilibrata.
E come ripeterebbe il maestro:
“Credo che le tradizioni si modifichino. Credo che sia fondamentale continuare a conservarle in qualche modo, ma comunque conservarle. Perché in un’epoca come la nostra che è un’epoca di cambiamenti epocali, l’unico modo per non avere paura di tutto quello che sta avvenendo è di sapere quello che sei. Saperlo. Senza sapere di dirlo, senza sapere di proclamarlo. Ma se lo sai quello che sei, te stesso, con le tue tradizioni, non perderai mai la tua identità.”
Gaia Courrier.