Chi nasce con una propensione verso l’arte, sa già che dovrà investire parte della sua vita a rincorrere l’espressione di questa e una volta raggiunta, conviverci.
Il binomio tra una dimensione privata ed una artistica spesso può essere parte di un equilibrio oppure il suo contrario. Su questo delicato rapporto abbiamo interrogato Daniele Chiaramida: musicista, attore, autore di testi e canzoni. Dalla terra dell’Etna alla terra di numerose città di Italia ed estere, lungo il suo percorso professionale e professionalizzante ha portato fra la gente le sue note e il suo vigore.
Hai iniziato dalla strada, definizione che cela un aspetto non trascurabile: un contatto con la realtà diretta e una percezione del proprio spazio artistico senza filtri. Quale sensibilità hai maturato partendo da questa esperienza?
La sensibilità che ho maturato la capisco e la provo quando mi distacco dalla strada e mi metto in altri contesti magari più “convenzionali”. Lì mi accorgo che la mia pratica della strada si traduce in alcuni atteggiamenti come l’essere preciso su alcune cose o nell’essere diretto su altre, perché, in strada, devi essere molto diretto. Non conosci nessuno e ti senti un pregiudizio addosso anche quando non ce l’hai, può essere anche positivo tra l’altro e quindi devi essere pronto quando qualcuno ti si approccia. In strada non c’è molta parola o diplomazia. Di solito è bianco o nero e questo tipo di attitudine acquisita a volte mi si ripresenta in altri contesti dove invece c’è più intermediazione e quindi non puoi applicarla. Atra sensibilità è sicuramente riuscire a capire un po’ alcuni atteggiamenti delle persone, il loro spirito e le loro espressioni. Ti abitui a questo contatto ravvicinato e ti accorgi immediatamente se chi si avvicina ti fa un sorriso o ti mette i soldi quasi per dispetto (pochissime persone) o è un bambino, un signore incuriosito… perciò magari sviluppi o accresci quella che è la tua sensibilità rispetto agli altri. Un aspetto negativo della strada è che amplifica le tue insicurezze. È l’apoteosi della precarietà psicologica, emotiva ed economica. Però rispetto ad un locale, maturi molta resistenza, pratica o confidenza anche con lo strumento stesso, che non diventa più un evento averlo in mano ma quotidianità. Vale anche per chi canta. Ho trasformato molto la mia voce negli anni. A volte in strada capita che non hai l’amplificatore e allora devi spingere molto sulla voce o modularla quando lo hai. Diventa quindi una scuola tecnica ma non solo.
Qual è il tuo stato d’animo quando sei immerso nella musica?
Il mio stato d’animo di partenza è sapere che la musica mi rilassa. Mi sazia un aspetto che non è neanche così poetico ma molto fisico. In quel momento lì mi fa sentire bene. Poi, suonando, ho vissuto vari stati d’animo perché è normale che si vivono anche di diversi. I peggiori sono l’apatia, la noia. Possono esserci situazioni quasi deprimenti. Adesso non mi succede più perché la vivo più serenamente la strada. Quando la vivevo per campare a Roma, spesso era molto frustrante. Cominciavo già stressato, con chitarra, amplificatore, in mezzo alla gente sei molto appariscente. Arrivi là e speri non ci sia nessuno, magari non sei nel mood e ti devi forzare ad iniziare perciò può essere molto pesante. Ma questo è soggettivo, personalmente sono molto emotivo per alcune cose. Al di là di qualche esperienza, in generale lo stato d’animo è comunque di calma. Effetto serenità. Dallo stato d’animo poi, dipende quanto arriva all’ascoltatore, dipende il tuo guadagno e se non hai quello te la vivi inevitabilmente male. Su quest’ultima, con un mio collega a Roma, si parlava spesso di soldi e magari qualcuno può pensare che la musica è una cosa nobile ed è inappropriato questo accostamento, ma bisogna capire che parlare di soldi in strada non è parlare di soldi in sé ma parlare di tanto altro perché da questi scaturiscono la tua emotività, un equilibrio e di conseguenza il tuo rendimento artistico.
Ci sono degli elementi che fan parte di te, del tuo stile che non cambieresti?
Forse quello che non cambierei è l’essere un po’ conservatore, anche se è brutta questa parola ma c’è della verità per me. Sono i miei limiti che non cambierei, quello che in altri aspetti non musicali invece, rompo completamente, come nella scrittura o nell’umorismo per esempio o non per forza in ambito artistico. Non cambierei una certa attitudine, un certo gioco e divertimento che è necessario perché io stia bene e per far star bene gli altri. Ho bisogno di spaziare fra varie lingue, vari repertori, magari andare dalla Bossa Nova al cantautorato, songwriting. Se mi dicessero di fare un intera serata su De André che amo molto tra l’altro, soffrirei. Ho bisogno di fare un pezzo di Toquinho e poi di botto un pezzo mio e di botto accennare una cosa strumentale. Questo tipo di libertà nel condurre chiamiamolo “concerto” è necessario ai fini di una buona resa. Può essere un limite ripeto, soprattutto quando si suona con gli altri, questo non lo posso fare. Non cambierei il mio modo di interpretare in modo diverso le canzoni, magari anche di pochissimo. È una questione di improvvisazione, un leggero margine di libertà interiore, estemporanea che per me è un punto fermo.
Oltre musicista hai diverse esperienze attoriali. Sei dunque abituato ad usare due registri espressivi differenti. Capita che fai incontrare le due arti? Se si, In quali momenti?
Quando canto a me piace molto curare l’interpretazione. Quando suonavo ai fori imperiali, cantavo con la camicia aperta o scalzo, avevo una base di performance attoriale, poi non facevo niente di diverso però comunque mi piace nella musica anche l’estetica. Forse il connubio più grande che ho avuto è stato due anni fa quando ho creato, grazie anche allo studio di un pittore in un garage stile anni ‘70, un format che coniugava lo spirito dell’Open mic arboriano anni ‘80, uno spirito improvvisatorio, con un po’ di Gialappa’s e di Monty Python. In questo format noi presentavamo, c’era della musica, c’era recitazione e spesso queste performance non appartenevano a me ma io le selezionavo ed inserivo le mie visioni su varie cose insieme. Poi, nell’intimità, da quando son bambino faccio sketches con mio fratello. Il tutto non è mai sfociato in un progetto vero e proprio, da un’idea ancestrale e secondo noi valida, adesso che siamo più grandi magari vorremmo metter su qualcosa di più serio. Poi, tendenzialmente ho sempre fatto le cose abbastanza diversificate.
Ogni artista ha la propria visione del mondo artistico e non, conseguita inevitabilmente dai propri singolari trascorsi. Qual è la tua?
Ho sempre fatto fatica all’idea di affrontare il mondo personale. Mi fa un po’ paura. Sin da piccolo ho sempre avuto un mondo interiore nel quale mi sono rifugiato, per questo motivo la mia idea può essere anche pericolosa. Detto questo, da un punto di vista professionale è difficilissimo ma è anche bellissimo. Esistono cose stupende ma per arrivarci devi avere doti anche non artistiche. La mia visione del mondo artistico è che se tu ti apri o ti esponi per quello che tu ami o per una tua visione puoi farti male, ho quest’idea. Paradossalmente per me la musica in strada mi protegge da questo. Tanti anni mi son creato un personaggio, un mestiere che dà protezione. Quando ho una chitarra in mano mi sento al riparo e mi succedono molte più cose di quando invece mi presento e mi espongo con la mia visione del mondo, dell’arte, dell’estetica, senza avere niente in mano. Anche senza mostrare niente, anche solo con la parola per esempio, mi sento vulnerabile, come se stessi aprendo una porta e non so chi può entrare. Questa situazione è la mia prigione e la mia libertà. Ho fatto uno spettacolo tempo fa, l’Urlo, quella volta lì è successo di tutto, produttori che volevano produrmi, svariati contatti che arrivavano, ma lì mi sono fatto veramente molto male dopo. Senza il mio personaggio musicale sono vulnerabile ma più felice perché a volte la musica mi isola. Suono quasi sempre da solo. Certo, nei momenti più belli mi fa vivere, mi fa sedurre, mi fa campare, ma adesso ho visto che la gente a volte mi vuole in quel modo e questa cosa qui mi esclude dalla possibilità di mostrare anche lati diversi di me, come lo sbagliare o tante altre cose.
Se dovessi scegliere delle parole, dei versi, per dire qualcosa di te a chi ti ascolta, quali sceglieresti?
Da quando ho vissuto a Roma seguo tutt’ora un maestro di arti marziali. Lui ha una scuola di “crescita”, anche se questa parola rimanda a robe New Age e cose del genere, ma diciamo che guida un percorso in cui si studiano varie cose, psicologia, filosofia, scienza, meta-psicologia, esoterismo, e forse mi ispirerei ad alcune frasi che lui negli anni ci ha detto. Una delle cose più belle è che il cambiamento sta tra le cose e non è la svolta. Non è andare in Costa Rica di botto e lasciar tutto (poi, può essere anche una figata non sto dicendo questo) però, forse il cambiamento è invisibile. Questa cosa mi piace molto, mi sembra rivoluzionaria nel 2021 piuttosto che attaccarsi ad ideali e dogmi vari. Uno può lavorare in banca ed essere anche una persona libera. Mi piace vederla così.
Se dopo aver letto le sue parole, voleste sentire anche la sua musica, qui di seguito il link di uno dei suoi tanti pezzi, registrato in collaborazione con Viceversa Studio.
Gaia Courrier.
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