Oggi, con il 21 giugno, si inaugura ufficialmente la stagione estiva. Peccato che io debba fare una confessione, forse controcorrente: io odio l’estate, con tutta me stessa. Cioè no, non è vero. Odio l’estate in città, con l’afa, le zanzare ed il sole che si rifiuta di fare financo capolino dalla cappa di smog e umidità che ha deciso di opprimere la città per i prossimi tre mesi. Potrei trovare l’estate accettabile solo se mi trovassi in un luogo meno appiccicoso, affollato e caldo. Siccome le vacanze sono, ahimè, lontane, nel frattempo – per istinto di sopravvivenza – la mia mente vaga verso cime innevate, guglie di roccia, ghiaioni scoscesi e sentieri in salita che conducono su una cresta oltre la quale ci pensa l’immensità di un mondo sconfinato, imponente e meraviglioso a ricordarci cosa significhi essere invasi da un senso esaltante, esilarante ed emozionante di libertà. Insomma, è drammaticamente arrivata l’estate e io sogno le montagne.
I documentari di avventura
E’ così che rifugiarci nel mondo fantastico dei documentari può aiutarci a trasportare i nostri pensieri esattamente dove vorremmo essere o dove, forse, non riusciremo ad essere mai, nemmeno tra un milione di anni. Parlo almeno per quelli tra di noi a cui mancano la forza fisica, l’allenamento, la costanza, il coraggio e la sfrontatezza di voler arrivare dove pochissimi riescono a poggiare il piede (o, a volte, anche solo una falange).
Mi direte: e cosa c’entrano i documentari di montagna con una rivista di arti dello spettacolo? Per me c’entrano, eccome. Innanzitutto, grazie alla forma documentaristica, tali pellicole – più o meno lunghe – assumono grande importanza in quanto rappresentano una testimonianza insostituibile di esperienze al limite delle possibilità umane, che non avremmo altrimenti modo di apprezzare. I film di ‘finzione’ – con il mare ricreato in piscina o gli effetti speciali realizzati al pc – non possono infatti farci partecipare alle emozioni vere vissute dai protagonisti veri di imprese – che si tratti di alpinismo, arrampicata o freeriding – che richiedono anni di progettazione e preparazione, nonché giorni, se non mesi, di effettiva realizzazione sul campo.
E poi, ci vuole arte anche per saper raccontare una storia nel modo giusto, per cogliere i tratti del carattere di un personaggio (vero) che meritano di essere messi in luce. Ci vogliono una profonda consapevolezza e una propensione alla ricerca del bello che hanno poco a che fare con l’estetica e molto più a che fare con l’urgenza primordiale di comprendere un’entità (troppo grande per essere confinata su un piccolo schermo) quale è la Natura, e di rappresentare una realtà enigmatica e delicata quale il rapporto dell’uomo con essa.
Il dilemma etico del documentarista
Anche se i documentari hanno, quasi fino all’arrivo di Netflix, ricoperto un ruolo più marginale e periferico rispetto al classico film, il loro appartenere al mondo non-fiction crea un rapporto più immediato con la realtà filmata, che si suppone immortalata così come si è verificata. E’ innegabile che alcuni documentari, per la storia trattata, ma anche grazie all’abilità del regista e del direttore della fotografia, riescono ad avere un particolare impatto emotivo sullo spettatore. E’ il regista, infatti, ad avere l’ultima parola su quale frammento della vita che si dipana di fronte alla sua telecamera inquadrare. E’ lui ad essere chiamato ad una scelta non da poco, che si gioca tutta sulla capacità di trovare un equilibrio tra il realizzare riprese ad effetto, spesso in ambienti ostili e tutt’altro che ‘camera-friendly’, e il cercare di interferire il meno possibile – anche solo con la presenza silenziosa dei cameraman – con la realtà da registrare.
E questo è tanto più vero, quanto più ci si trova ad immortalare imprese estreme, in cui anche la minima distrazione – causata da un agente esterno – potrebbe far precipitare nel vuoto il protagonista del documentario e costargli la vita. E c’è davvero qualcuno che vuole imprimere la morte su pellicola? Nasce così un problema etico non indifferente: quanto spingersi oltre nella realizzazione di un’opera d’arte, essendo consapevoli del fatto che essa può, di fatto, plasmare la realtà che vuole rappresentare per il solo fatto di star venendo alla luce? L’inquadratura perfetta e la ripresa del passaggio acrobatico di un free climber, effettuata a distanza troppo ravvicinata, valgono la sua messa a rischio?
La mia TOP 3 dei documentari di montagna: FREE SOLO
Si sono dovuti porre questo interrogativo il regista, fotografo ed alpinista Jimmy Chin e la documentarista Elizabeth Chai Vasarhelyi. Il loro documentario del 2018 è incentrato sulla scalata della parete di El Capitan, la famosa montagna simbolo della Yosemite Valley, realizzata per la prima volta in free solo (ovvero senza l’ausilio di corde o altra attrezzatura di sicurezza) da parte di Alex Honnold il 3 giugno 2017. Dopo mesi di preparazione, nonché dopo una rinuncia a metà impresa qualche tempo prima, Honnold ha attaccato la parete – armato soltanto della magnesite con cui ‘impolverarsi’ le dita – riuscendo a scalare i suoi 900 metri verticali in meno di quattro ore. Un documentario al cardiopalma, specialmente nelle scene finali, che ci mostra anche un Honnold più privato e ‘umano’, e non solo lo scalatore dallo straordinario sangue freddo che è riuscito in un’avventura che tutti, fino a quel momento, ritenevano impossibile.
La via scelta da Honnold, chiamata Freerider, richiede infatti un tipo particolare di arrampicata, conosciuta come friction climbing, con l’assenza quasi totale di appigli di dimensioni maggiori alla metà di una falange umana, in cui il grosso della presa viene data dalla frizione della gomma delle scarpette contro la roccia quasi completamente priva di inclinazione. La via comprende inoltre passaggi particolarmente complessi e dinamici, come il karate kick necessario per superare il punto denominato, non per nulla, The Boulder Problem. Nelle parole del regista, Chin, le opzioni in caso di Free Solo sono solo due: perfetta esecuzione o morte sicura. Una sorta di coreografia, quella di Honnold, provata e riprovata, fino a riuscire ad eseguire ogni movimento con la forza, grazia e concentrazione necessarie per poter passare al gesto successivo; una sorta di danza ad alta quota, affacciata sul nulla.
Le riprese sono state effettuate utilizzando camere con grandangolo per immortalare la totalità dell’impresa, immagini che rendono particolarmente evidente le dimensioni mastodontiche della parete rispetto ad Honnold, nonché la pericolosità e la verticalità della parete stessa. Il resto del lavoro è stato fatto da una troupe cui era richiesto di essere allo stesso tempo cameraman e climber abilissimi, dovendo lavorare ad altezze variabili su una parete completamente verticale, portando con sé fino a 20 kg di attrezzatura per le riprese, oltre a 100-300 metri di corda. In alcuni casi, il cameraman è stato addirittura calato, assicurato ad una fune, da un altro operatore in modo da poter realizzare “moving shots“.
Il dilemma etico si è posto in questo caso ad un doppio livello, quello del regista e dei suoi collaboratori e quello del protagonista del documentario. Honnold non era tanto preoccupato per un eventuale esito fatale in sé, quanto piuttosto di morire di fronte ai propri amici che erano lì per immortalare la sua impresa. Inoltre, sapeva che avrebbe provato, oltre alla – e forse più della – propria paura, una sorta di paura riflessa: specialmente all’altezza del Boulder Problem, il fatto di essere consapevole della tensione dei cameraman che avrebbero dovuto riprenderlo ‘da vicino’ avrebbe aggiunto un elemento di complessità innecessario alla sua avventura. In questo caso specifico, si è optato, quindi, per remote cameras, del cui buon funzionamento i registi stessi non hanno avuto conferma se non a riprese finite.
Ciò che emerge da questo lavoro di professionisti della montagna, nonché del genere documentario, è la figura di un uomo, Alex Honnold, che vive con intenzione ogni singolo giorno della sua vita, un ragazzo che grazie alla preparazione, alla disciplina, alla concentrazione e alla determinazione riesce in un’impresa memorabile che lascia senza fiato. Free Solo ha vinto il premio People’s Choice Documentary al Toronto International Film Festival nel 2018, nonché un BAFTA e l’Oscar per il Miglior Documentario nel 2019. E’ disponibile per l’acquisto ed il noleggio su YouTube.
La mia TOP 3 dei documentari di montagna: THE DAWN WALL
L’aspetto umano è anche il principale ingrediente di The Dawn Wall, firmato da Josh Lowell e Peter Mortimer, che hanno voluto raccontare la vita di Tommy Caldwell e seguire il suo tentativo, effettuato insieme a Kevin Jorgeson e durato ben sei anni, di scalare El Capitan con le corde di assicurazione, ma lungo una via mai provata prima. Sei anni di esperimenti, fallimenti e nuove prove per riuscire a superare i due passaggi più complessi della parete, fino al tentativo finale di arrampicata, durato 19 giorni (senza mai scendere a terra), a coronamento di un’impresa che ha visto la coppia di climber finalmente vittoriosi.
Ed il successo è stato tanto maggiore perché partecipato: Caldwell si è rifiutato di arrivare in cima senza che anche il suo compagno di avventura riuscisse a superare il punto particolarmente ostico che gli proibiva di proseguire. La pazienza e la resilienza hanno premiato entrambi, come si può vedere da questo documentario (disponibile su Netflix) che ci ricorda che la felicità è vera solo se condivisa e che per essere dei grandi atleti, bisogna per prima cosa essere dei grandi esseri umani.
The Dawn Wall ha richiesto molte riprese in notturna, poiché gran parte dell’ascesa è avvenuta nei momenti in cui la temperatura era meno elevata e la parete più facile da attaccare. La troupe ha allestito delle corde, lungo le quali muoversi ed appendersi nelle lunghe ore impiegate dai climbers per superare con successo i vari pitch della via.
La mia TOP 3 dei documentari di montagna: ZABARDAST
Zabardast è uno straordinario diario di viaggio collettivo, emozionante e delicato, realizzato da Jerome Tanon per Picture Organic Clothing e Almo Film nel cuore del Karakorum (Pakistan), in una regione estremamente isolata. Con l’obiettivo di scalare alcune tra le vette più mozzafiato del mondo per riscendere le loro pareti ripidissime con lo snowboard o gli sci, il documentario vede come protagonisti cinque freeriders. Con un mix di riprese aeree, primi piani, nonché immagini realizzate con action cam frontali, che ci gettano con il cuore in gola in alcuni dei momenti più tesi di questa avventura, il film segue le peripezie, i dubbi, le paure, gli atti di coraggio e i dolorosi atti di rinuncia del gruppo, isolato dal resto del mondo e obbligato ad essere autosufficiente per più di 150 km tra i ghiacci, la neve e i crepacci di un ambiente meravigliosamente severo.
Silvia Bedessi