Ricordiamo il grande artista che ha toccato tutte le arti ma che aveva un viscerale amore… per il Cinema!
L’11 maggio del 1904 nasceva Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech. Più conosciuto come Dalì.
E più conosciuto come pittore e scultore. Tuttavia non si deve dimenticare l’impegno di Dalì in molti altri ambiti artistici. Il Teatro, con la realizzazione di scenografie e costumi, ma anche l’oreficeria, la grafica, la pubblicità, la moda, la fotografia e naturalmente il Cinema. Una passione, quella per la forma cinematografica, che si trova più volte nella carriera dell’artista spagnolo, fin dai suoi anni giovanili. Già il suo primo approccio al Cinema diventa un progetto leggendario. Nel 1929 infatti Dalì collabora con il regista surrealista Luis Buñuel alla realizzazione del cortometraggio Un Chien andalou. Seguirà poco dopo anche L’Âge d’or.
Il Cinema surrealista
I due film del binomio Dalí-Buñuel vogliono essere e di fatto diventano qualcosa di mai visto prima. Scandalizzano e insieme disorientano. Attraggono e insieme respingono. Lo stesso interesse nell’attrarre e poi respingere anche con repulsione l’occhio dello spettatore, caratterizzerà tutta la vita di un altro grande maestro del cinema mondiale con cui Dalì lavorerà poco meno di 20 anni dopo: Alfred Hitchcock. Con modalità del tutto diverse e seguendo invece un punto di vista non surrealista ma narrativamente classico. Senza però non nascondere retro significati altamente psicologici in uno dei primi film sulla psicanalisi: Io ti salverò (Spellbound) del 1946.
Il film con Alfred Hitchcock
A metà degli anni ’40 arriva dunque la nuova occasione per toccare il cinema, desiderio che ad ogni modo non si era mai spento nell’animo creativo di Dalí. All’epoca Alfred Hitchcock aveva appena girato due dei suoi film più riusciti, L’ombra del dubbio e Prigionieri dell’oceano (tutto ambientato in una scialuppa di salvataggio dopo un naufragio) e si era impegnato nella realizzazione di alcuni corti e documentari di propaganda bellica. La guerra era appena finita e il suo prossimo film avrebbe trattato un argomento delicato come la psicanalisi, forse primo esempio alto nella cinematografia a toccare il tema. Al suo primo film con una delle attrici che sarebbero diventate definibili “hitchcockiane”, Ingrid Bergman.
Hitchcock affrontava così la stesura del soggetto tratto dal romanzo La casa del dottor Edwardes di Francis Beeding e fortemente voluto dal suo produttore, David O. Selznick (reduce dal successo di Via col vento e Rebecca). Nel film la Bergman lavora in una clinica psichiatrica. Gregory Peck viene introdotto come nuovo direttore e lei se ne innamora immediatamente per poi scoprire che questi soffre di amnesia e che forse non è il vero dottor Edwardes, ma in ipotesi proprio il suo assassino che tenta di sostituirlo. Nel tentativo di capire l’enigma la Bergman, aiutata da un vecchio professore, lo sottopone a sedute di psicanalisi dove il finto Edwardes in trance, ricorda. Ed è qui che entra in scena Dalí.
Sicuramente il genio del cinema e Dalì due cose in comune le avevano: talento personale e capacità di auto promozione. Nei rispettivi campi artistici, questo mix di capacità e spettacolarizzazione di se stessi e della loro immagine, li ha portati all’apice di tutto il conquistabile. Fra settembre e ottobre del 1945 passarono insieme molto tempo e Dalì realizzò 100 schizzi e cinque dipinti a olio da consegnare allo scenografo perché fossero prodotti.
La trasposizione in immagini di tutti i simboli onirici immaginati per intero da Hitchcock fu realizzata da Rex Wimpy (che collaborerà ancora con Hitchcock in altri film e in particolare modo in Psycho, il cui titolo di lavorazione sul set 15 anni dopo, nel 1960 fu proprio Wimpy e non Psycho; ho scritto un articolo a riguardo qui www.nerdream.it/2020/11/22/dentro-la-doccia-di-psycho-speciale-60-anni-di-un-capolavoro/) specializzato in effetti speciali. Le idee di Dalì invece come spesso accaduto altre volte nella sua carriera erano troppo grandi e megalomani per poter essere realizzate interamente.
3 minuti da sogno
Dalì fu chiamato in quanto massimo esperto nella rappresentazione figurativa del materiale onirico, ma le sue idee erano così tante che per realizzarle e metterle in scene nella loro interezza sarebbero occorsi 20 minuti di film. Ne vennero realizzati solo tre minuti totali. Non solo per un problema di minutaggio ma anche per l’impossibilità tecnica, per l’epoca, di realizzare in film molte delle sue idee (Hitchcock e i suoi scenografi e addetti agli effetti speciali per esempio non avrebbero mai potuto realizzare una scena in cui venti pianoforti aleggiano sulle teste di circa cento ad un ballo di corte, così come l’aveva immaginata Dalì o la scena in cui il corpo della protagonista, Ingrid Bergman, sarebbe stato ricoperto di formiche!) Ma la mano dell’artista è evidente in ogni fotogramma.
Qualche tempo dopo Dalì, nonostante l’ottimo rapporto con Hithcock, che era un suo grande estimatore, parlò del film con distacco. “Un bel lavoro, in cui le parti migliori sono state tagliate”, dichiarò. Ad ogni modo la sequenza divenne un vero e proprio cult: occhi giganti che spuntavano dai tendaggi e che venivano tagliati dalle forbici (vi ricordate il taglio dell’occhio in Un chien andalou?), uomini senza volto e oggetti dai bordi contorti. Allo spettatore sembrava di stare dentro uno dei suoi dipinti. La scena del sogno oltre a risultare innovativa e mai realizzata prima in quel modo, era cruciale e di fondamentale importanza per lo svolgimento e lo scioglimento della trama del film. Tutti gli elementi del sogno di Gregory Peck hanno un significato preciso che verrà svelato nel finale del film. E la psicanalisi: l’inconscio sottoposto al processo di interpretazione scientifica. E artistica, in questo caso.
Conclusioni
In tutta la sua vita Dalì, tenta un approccio al cinema, sia esso diretto o indiretto, sia in forma di contributo che come protagonista, soggettista, ideatore di scene o scenari. Con i bozzetti, le idee, le scenografie realizzate o solo immaginate, le storie, i sogni. Dalì non ha mai smesso di tendere al cinema, seppur spesso senza il successo che avrebbe desiderato in questa forma d’arte. Tuttavia, possiamo dire con certezza che essersi costantemente messo alla prova con un linguaggio, quello cinematografico, ben diverso da quello pittorico ha dato vita anche nella settima arte a una serie di immagini inequivocabilmente riconoscibili come daliniane. Immagini che rimangono indelebili negli occhi dei fortunati spettatori, come in quelle di chi si trova di fronte ad un quadro del maestro in un museo.
Stefano Chianucci