Palermitano, lo sguardo che riesce a bucare la camera anche attraverso lo schermo leggermente sgranato del pc in videoconferenza, Filippo Luna è un attore a tutto tondo, con l’invidiabilissima qualità di catturare l’attenzione e l’immaginazione del pubblico senza timore di concorrenza da parte dei suoi compagni di scena, con il suo carisma discreto, elegante e magnetico.
Si è formato presso l’Accademia dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) di Siracusa, diretta dal latinista Giusto Monaco. Lavora instancabilmente a teatro, collaborando con registi ed attori come Thyerry Salmon, Giancarlo Sepe, Vincenzo Pirrotta, Roberto Andò e Claudio Gioè. Al cinema è stato protagonista, tra gli altri film, di Lo Scambio (di S. Cuccia) e La Trattativa (di S. Guzzanti), nonché di Nuovomondo e Terraferma di Crialese.
Abbiamo avuto il piacere di parlare con lui di teatro, pandemia e della sua terra di origine, in un’intervista in cui Filippo ci ha raccontato, con grande lucidità ed onestà, la sua visione del mondo della recitazione.
Partiamo dalle tue origini: ti sei formato all’Istituto Nazionale del Dramma Antico, che dà grande importanza allo studio e alla pratica del teatro classico. Pensi che questo tipo di formazione ti abbia permesso di avere delle qualità diverse rispetto a chi intraprende un altro percorso per diventare attore, incidendo sul tuo modo di fare questo mestiere?
Credo che l’INDA mi abbia dato tanto, perché quando vi sono arrivato ero un ragazzino che aveva molta voglia di fare questo mestiere, ma che non aveva mai messo piede in un teatro prima di allora. Il mio riferimento fino a quel momento era la televisione, perché nel paesino in cui abitavo, San Giuseppe Jato, a 25 km da Palermo, non c’erano teatri e non venivano nemmeno le compagnie di giro. L’INDA, invece, mi ha sicuramente aperto la strada della formazione, ma anche della conoscenza. A dispetto del suo nome, la formazione che abbiamo avuto è stata a tutto tondo: sì, con una base molto classica e legata alla specificità della scuola, ma con insegnanti che ci hanno permesso di spaziare tra i vari generi teatrali, anche stilisticamente. È stato fondamentale anche incontrare professionisti ed attori straordinari che venivano a Siracusa, come Anna Proclemer, Giancarlo Sbragia, Toni Servillo, ovvero personalità già affermate, con un bagaglio e un’esperienza talmente vari da essere grande fonte d’ispirazione. Generalmente credo che una buona formazione ti segni e ti dia i mezzi che poi dovrai elaborare, attraverso le scelte che farai e le opportunità che ti verranno offerte.
Hai partecipato a numerosi spettacoli basati sui più famosi testi del teatro classico o, comunque, ispirati al mito. Quanto il teatro classico e la mitologia hanno ancora da dirci e come possono parlare a generazioni che oggi li studiano molto meno?
Penso che uno dei grandi mali del nostro tempo sia proprio la perdita di contatto con tutto ciò che è tradizione e che oggi viene definito come antico ed obsoleto. Queste due accezioni del termine, date dalla modernità, rischiano invece di far perdere un punto di vista importante: non c’è innovazione senza tradizione. Non a caso, molti di questi titoli vengono rielaborati, riscritti e contestualizzati in un panorama diverso da quello originario. E poi, tutti gli anni a Siracusa arrivano più di diecimila persone al giorno per vedere i grandi classici.
I temi che vengono affrontati da questi testi – non solo quelli dei grandi autori di tragedie come Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma possiamo riferirci anche a Pirandello, Goldoni e molti altri – sono temi universali, che ancora oggi ritornano prepotentemente. La ricerca dell’uomo non è esaurita minimamente, anzi, oggi come oggi, questa ricerca è molto attiva, in un tempo di modernità in cui le nuove tecnologie ci stanno costringendo ad una sorta di disumanizzazione, ad una mancanza di riflessione, ad una mancanza di attenzione verso i grandi temi. Certo, quello dei giovani e i classici, dei giovani e il teatro, è un tema molto scottante perché per molti anni il cattivo teatro ha fatto in modo che generazioni di giovani si allontanassero da esso. Riprendere questo legame è oggi molto difficile, ma non significa che non ci si debba provare. Ad esempio, qualche anno fa ho fatto una riscrittura del XXXIV canto dell’Orlando Furioso, quello in cui Astolfo va a riprendersi il senno di Orlando sulla luna. Portando lo spettacolo nelle scuole, ho capito che ciò che è importante è come si porgono le cose, specialmente in teatro.
A proposito di giovani, in un’intervista hai auspicato la creazione di una piattaforma per la condivisione di conoscenze sul teatro, più che per la messa a disposizione di spettacoli in streaming. Hai anche espresso un’opinione forse controversa, ma molto apprezzabile, sulle letture improvvisate che hanno popolato Facebook e YouTube durante il primo lockdown, facendone una questione di gusto. Si ha sempre più l’impressione di poter vedere tutto, ma di conoscere molto poco di quel che vediamo…
Sono stato molto polemico, a costo di attirarmi le critiche e, addirittura, l’inimicizia di molti teatri. Sinceramente penso che il teatro, come ogni forma di espressione, si debba misurare con le nuove tecnologie, ma è importante vedere come lo si fa. Il gusto è molto importante. Non basta semplicemente metterci davanti ad una camera e leggere una poesia, bisogna capire qual è la letteratura che si vuole raccontare e in che modo la si vuole raccontare. Quindi deve prima avvenire una lunga e attenta riflessione. Tuttavia, per una questione legata anche ai costi accessori della digitalizzazione del teatro, quello a cui assistiamo è di una qualità assolutamente bassa.
Credo che spetti anche a noi interpreti prendere una posizione che sia dura, forte, ma che permetta all’interlocutore di riflettere. Non dobbiamo semplicemente farci abbindolare dall’idea di doverci esibire con la scusa di fare compagnia alla gente che è sola in casa. Ricordo che viviamo in un momento in cui ci sono una serie di piattaforme a pagamento che offrono prodotti di assoluta qualità, come serie televisive, film e documentari. Per cui, dell’attore un po’ triste, con la libreria dietro, che ti legge la poesia, secondo me non abbiamo bisogno. Specialmente durante il primo lockdown, morivano 800 persone al giorno e queste 800 persone, per quanto non avessero legami di sangue con noi, erano comunque madri, fratelli e padri, parenti di altri, e io credo che un po’ di silenzio e di rispetto non avrebbe guastato per niente, oltre a permettere a chi voleva fare questo tipo di operazione di riflettere esattamente su come farlo.
Non credo alle operazioni che sono state fatte sia dai teatri stabili sia dai singoli, non credo a tutti quelli che ogni giorno ci hanno regalato una fiaba o una poesia. L’ho trovato noioso, pretestuoso, scollato dalla realtà in cui viviamo. La pandemia poteva essere occasione per metterci a confronto con noi stessi, con i nostri desideri e le nostre ambizioni. Avrebbe dovuto farci riflettere anche sul comparto teatrale, mentre invece c’è stata una corsa al mors tua vita mea, a chi otteneva più like.
Diverso è il caso di spettacoli pensati o ripensati apposta per lo streaming, con immagini e punti di vista straordinari. Faccio un esempio: l’ultimo spettacolo di Roberto Andò, Piazza degli Eroi, registrato al Teatro di Napoli, è andato in onda su Rai5. Quello è un esempio di grande teatro affidato alle telecamere, dove una regia sapiente ti fa cogliere l’emozione e lo sguardo degli attori direttamente dal divano di casa tua. Sappiamo che il teatro dal vivo è insostituibile, però è pur vero che quando queste operazioni vengono fatte con una coscienza portano a una qualità del lavoro artistico.
Per il Teatro Biondo di Palermo, sto anche lavorando a La Veglia, un capitolo di Santa Samantha diretto da Rosario Palazzolo, che ne ha cambiato totalmente la drammaturgia. Noi stiamo lavorando per capire come fare a far sì che lo spettacolo, che generalmente si fruisce dal vivo, venga fruito attraverso le telecamere. Stiamo facendo una ricerca e correndo un rischio in base ad un principio artistico, una riflessione profonda.
Dal punto di vista del comparto, si assiste ad una maggiore fluidità, nel senso che chiunque si può improvvisare attore, almeno apparentemente, ma dall’altra parte vi è una grande rigidità del sistema con barriere all’entrata apparentemente insormontabili, specialmente per giovani attori o piccole realtà, nonché problemi di rappresentatività. Che ne pensi?
Ci vorrebbe una rivoluzione. C’è una norma che vieta ai direttori dei teatri stabili di fare spettacoli, che però non viene rispettata, perché poi i direttori curano le loro loro regie. In un momento come quello della pandemia, quando ci chiamano per lavorare ci dicono che non ci sono soldi e ci riducono le paghe. Eppure, è molto facile fare proclami su Facebook, dichiarare di fare resistenza attiva quando si hanno 150mila euro l’anno. Con 150mila euro l’anno anche io e riesco a fare resistenza attiva dal divano di casa mia.
Dovremmo invece avere la forza e il coraggio di opporci a tutto questo, ma è molto difficile farlo in quanto singoli. Se lo fai da singolo rischi di rimanere totalmente fuori, perché l’atto di mafiosità esiste in Sicilia, come in Toscana, come a Milano. In quel piccolo cerchio intorno al quale gravitiamo, nel momento in cui, per una volta, non fai lo yes men, rischi di essere tagliato fuori…e conta ben poco se tu hai talento. Spesso la qualità delle cose passa totalmente in secondo piano, come lo streaming ci insegna. Abbiamo visto delle cose che io definiscono ‘munnizza’, che in siciliano significa spazzatura, e che sono state spacciate come opere d’arte.
Credo che la riflessione che deve fare la categoria debba essere fatta anche ai livelli più alti, in modo che gli amministratori, i direttori di teatri, i consigli di amministrazione rivedano in qualche modo il loro percorso e cerchino di trovare una sorta di maggiore coesione con quelli che sono gli artisti di ogni territorio. Invece di fare un’operazione di marketing con i grandi nomi per attrarre grandi folle, molti teatri avrebbero potuto coinvolgere artisti del territorio, permettendo loro di lavorare e distribuendo così ricchezza. Invece, si sono chiusi nella loro torre d’avorio, tutti – chi in maniera più elegante, chi meno – si sono messi al seguito di questa attività streaming, che, ricordo, inizialmente non prevedeva nemmeno una paga per gli attori.
Ci sono poi state delle lotte sindacali e adesso l’attività streaming viene pagata al minimo sindacale. È una situazione molto complessa, lungi dal migliorare, specialmente se si pensa che, quando Franceschini ha aperto le consultazioni al Ministero, ha parlato con attori che, per quanto bravi, certo non sono lo specchio di questa Italia, di quei giovani e di quelle compagnie che si stanno facendo un mazzo tanto per continuare ad alimentare un linguaggio che è legato alla sperimentazione e all’approfondimento.
Da attore palermitano pensi che la tua sicilianità si ritrovi nel tuo modo di essere attore e nella grande profondità e complessità espressiva che caratterizza le tue interpretazioni?
Le varie regionalità di appartenenza degli attori, siano essi siciliani, campani, calabresi, lombardi sicuramente arricchiscono il linguaggio espressivo di un attore. Sto pensando agli attori campani, più che siciliani, e penso che ci siano esempi di attori contemporanei napoletani che secondo me, anche grazie alla loro appartenenza geografica, sono straordinari, irraggiungibili, perché il contatto con quel linguaggio sito all’interno del DNA, che origina dal luogo fisico in cui si vive, delle tradizioni, dell’abitudine a una certa espressività, sicuramente arricchisce il vocabolario di un attore. Questa però non è una conditio sine qua non. Dipende tutto dalla rielaborazione personale dell’esperienza.
C’è sempre l’annosa questione per cui tutti i siciliani vengono chiamati solo per interpretare personaggi mafiosi…non si pensa mai che un attore siciliano possa poter parlare in dialetto torinese o lombardo. Non voglio però fare una rimostranza da questo punto di vista, perché credo sia giusto aprire i confini ed eliminare questi limiti.
Certo, molto probabilmente, il nostro essere calorosi, molto espressivi e gesticolanti, fuori da certi schemi di formalità nell’espressività, aiuta, ma a volte può essere anche un danno perché può essere difficile contenere tutta questa energia.
Nelle storie ambientate in Sicilia la mafia e la politica sono, più o meno in primo piano, sempre presenti. Pensi che siano elementi imprescindibili per il racconto di quella terra, o esistono altre narrative possibili e necessarie, oltre a queste?
La Sicilia è una terra straordinaria. È vero che ha tantissime storie pazzesche da raccontare, luoghi e tradizioni, ma è anche vero che l’argomento mafia la contraddistingue molto, la caratterizza. Sono convinto che, partire dalla Sicilia per parlare di mafia sia giusto e sia anche necessario. Ė importante che se ne parli nel modo giusto, che non vengano dati falsi modelli. Se rappresentiamo il mafioso come un eroe, sbagliamo. Se raccontiamo invece un fatto nella sua crudezza, con qualsiasi linguaggio si voglia, ma con un occhio attento a quello che è stato, alla realtà della storia contemporanea, facciamo un servizio e lanciamo un messaggio che può portare al cambiamento, nel tempo, di un certo tipo di dinamiche.
È un po’ come per il nazismo. Non dirò mai che mi sono scocciato di sentire parlare della Shoah. Io ne voglio sentire parlare sempre e voglio che la memoria rimanga viva, che tutti sappiano che quegli eventi sono accaduti, fanno parte della nostra storia e non devono più accadere. È lo stesso per la Sicilia.
Tuttavia sarebbe anche giusto trovare un’altra letteratura per raccontare questa terra, che è fatta anche di tantissimi altri aspetti e contraddizioni. È comunque una questione di gusto e di misura. Per esempio, Makari parla di una Sicilia in cui si parla di una comunità in cui succedono alcuni delitti efferati, ma anche cose meno tristi, un po’ più sopra le righe, divertenti.
Come è stata l’esperienza di Makari, la recentissima serie tv di Rai Uno?
È stata un’esperienza bellissima. Era un anno e mezzo che non frequentavo un set e tornarci è stato come ripartire un po’ da zero…si ha sempre la sensazione di vedere la macchina da presa per la prima volta. C’è una sorta di ansia, quasi da debutto, da dietro le quinte. In questo caso, la cosa particolarmente bella è stata girare in luoghi incantevoli, con una grandissima squadra: Claudio Gioè, Domenico Centamore e gli altri.
Siamo un po’ tutti amici. Claudio mi ha diretto anche nel Marat/Sade [in scena al Teatro Biondo di Palermo nel marzo 2020 ed interrotto dalla prima chiusura dei teatri ndr]. Con Domenico abbiamo un’amicizia che viene da lontano, da La Trattativa di Sabina Guzzanti. Abbiamo fatto un bellissimo lavoro di squadra per questo progetto tratto dai romanzi Gaetano Savatteri, che è un altro grande amico con il quale già collaboro da tempo. Sua è l’Intervista Impossibile a Leonardo Sciascia, che abbiamo fatto più volte e che spero di rifare anche quest’estate, se le condizioni lo permetteranno.
Pensi che esista un “filone siciliano”, un gruppo di attori che, specialmente negli ultimi anni, sono riusciti ad affrancarsi e ad interpretare i personaggi principali, invece di essere relegati a ricoprire ruoli minori, spesso stereotipati?
Non solo negli ultimi anni… sono uno che non ama fare nomi, ma ci sono attori in Sicilia, anche di appartenenza geografica diversa dalla mia, che è palermitana, che sono interpreti straordinari. Ad esempio, Ninni Bruschetta o Gaetano Bruno, impegnato in questo momento nelle riprese di House of Gucci di Ridley Scott, insieme a Lady Gaga e Adam Driver, dopo aver finito di girare la quarta stagione di Fargo.
Credo che in questi ultimi anni generazioni di attori siciliani si stanno facendo sempre più strada dimostrando di non avere niente da invidiare a nessuno e di meritare stima. Possono interpretare i mafiosi, ma possono essere anche mille altre cose. La Sicilia è diventata un set continuo: questo ha permesso di attingere da un bacino ampio e a molti attori di uscire dall’anonimato. Abbiamo ancora possibilità di migliorare…la fama infatti è una cosa che viene dopo. Puntiamo ad approfondire, in quanto interpreti, e a diventare sempre più bravi. Se ciò coincide con la notorietà bene, ma è più importante che coincida con la qualità.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Riporterai in scena il tuo Le Mille Bolle Blu, storico spettacolo con cui hai vinto il Premio ANCT 2010 per l’nterpretazione?
Lunedì riprendo le prove di Santa Samantha, una trilogia di Rosario Palazzuolo che sarebbe dovuta andare in scena a breve in base al precedente dpcm che prevedeva la riapertura dei teatri il 27 marzo. Adesso sarà proposto in streaming in occasione della Giornata Internazionale del Teatro. Il 31 mi sposterò invece a Catania per riprendere Baccanti, in cui interpreto Tiresia, in un progetto che toccherà Palermo, Catania e Trieste, sperando di debuttare in presenza ad aprile.
Le Mille Bolle Blu è uno spettacolo che ha 12 anni e che non credo si fermerà ma tornerà in scena quando ce ne sarà la possibilità. È uno spettacolo cui sono molto affezionato, anche per il tema che tratta, e nasce per piccoli spazi, da 100-200 posti. Questa estate porterò anche in giro il mio concerto Astolfo sulla Luna…e poi tutti speriamo in una seconda stagione di Makari.
Un ultimo appuntamento che mi piace ricordare è il 30 aprile, giorno in cui, per la Fondazione Teatro Tina di Lorenzo di Noto, parteciperò al ciclo di nove letture in streaming, ideato da Salvatore Tringali, per i 700 anni dalla nascita di Dante, leggendo il canto XXXIII del Paradiso.
Silvia Bedessi