É probabile che io fossi uno dei pochi uomini acculturati del mio distretto (cucina-salotto, camera da letto, uno studiolo, un bagno e balcone con discreta vista).
Ma questi anni, sopratutto mesi, forse giorni, per non parlare delle ultime ore di vita meschina, mi hanno trasformato, definitivamente, in un essere volgare.
Ho anche comprato una vestaglia consumata, di seconda mano, appartenuta ad un vecchio scorbutico pensatore per entrare meglio nella parte di chi gira per casa borbottando parole in grammelot stretto, che non hanno un senso ma dichiarano del tutto il mio stato d’animo.
Mettere in discussione tutto e tutti, se non ora quando?
In realtà confesso che il dramma di Čechov non è che un banale pretesto; non è l’amore per una donna a rappresentare il mio malessere. E’ invece la delusione per essermi reso conto che “il professore non è che un mediocre e che la vita al suo servizio è stata sprecata”. Chi è il “professore“? Un prototipo di artista, attore, regista ritenuto “Magister” detentore della purezza teatrale che mai fallisce, nemmeno se decidesse di punto in bianco di mettersi a leggere lo scontrino dell’Esselunga. Talvolta lo ritroviamo anche come docente di regia teatrale e tecniche della recitazione presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica. Più professore di così! Personaggi su cui, in momenti come questi, si fa totalmente affidamento e che hanno la capacità di tirarci fuori dalle paludi melmose dell’esistenza, loro, in equilibrio tra il bene e il male allo stesso tempo, hanno il potere di gettarti totalmente nello sconforto: “Ma come anche lui? Allora è finita veramente!”
Il mio riferimento è diretto a Massimiliano Civica che pochi giorni fa ha risposto alla domanda di Fertili Terreni Teatro/ Connessioni Teatrali:
“Dopo questa pandemia, che ci ha profondamente cambiati, come pensi che debba essere il teatro del futuro, come immagini vada progettato un nuovo modo di fare teatro dopo la riapertura?”
“Per me il problema non è tanto scoprire quello che si deve fare, tutti sappiamo quello che è giusto fare, tutti sappiamo quale può essere un teatro fatto bene. Il problema non è immaginare, non è inventare, non è scoprire… E’ guardare dentro di se per vedere quali sono gli ostacoli, che ci impediscono di essere le brave persone che ognuno di noi può essere”.
Dovremmo impegnarci in qualcosa che sia al di fuori di noi
Mi rendo conto di apparire blasfemo nei confronti di un premio Ubu spero non me ne voglia, io non avrò capito per miei demeriti, ma lei mi sembra confuso. Si consoli, è in buona compagnia. Basterebbe ammetterlo. Potrei citare anche Lavia che non poco tempo fa fu elevato ad effigie sulle bacheche di tutti i social-culturali utenti con le parole:
“Il teatro non è mai piaciuto al potere. Dà fastidio. Mi sono rifiutato tutte le volte che mi hanno proposto lo streaming.”
Mi tocca ricordare al maestro che è proprio il potere che fa il teatro, oggi giorno, anzi è storia vecchia (qui potete trovare un’intervista di Peppino De Filippo dove parla delle fortune del fratello legate esclusivamente agli agganci politici. Essere d’accordo o meno con lui non cambia la sostanza dell’esempio). E’ ovvio che il maestro sa! Solo che un artista del genere non appare mai ipocrita, bensì ottiene l’effetto contrario. Ora io per esempio so cosa tatuarmi sull’avambraccio. Per quanto riguarda lo streaming il maestro si può trovare con due spettacoli sulla piattaforma del fattoquotidiano – Loft per l’iniziativa: Tutta scena – Il teatro in camera (il che sinceramente non ci può che far piacere, di questi tempi).
…E se stavolta avessimo perso su tutta la linea?
Da qualche tempo faccio un paragone forse totalmente ingiusto: oggi e il dopoguerra. Scado nel più banale dei confronti tirato fuori da chiunque nell’ultimo anno, ma non riesco a non pensare a Napoli milionaria! per il teatro e a Roma città aperta (Rossellini) per il cinema, ambedue del 1945. La commedia di Eduardo, tra l’altro, andò in scena mentre erano in corso i bombardamenti. Ora sopra le nostre teste non grava nessun caccia bombardiere, le nostre città sono tristemente poco affollate ma tutte in piedi. Noi, però, in quanto esseri umani, ne veniamo fuori devastati sotto ogni singolo aspetto; dovremmo esplodere di creatività, come in ogni altro simbolico avvenimento del genere umano e invece si ha la percezione che per la prima volta ne usciamo sconfitti. L’umanità dei grandi maestri russi dopo la rivoluzione, la potenza artistica del dopoguerra, la rivoluzione francese e ancora quel famoso 1492 che per tutti i libri di storia segna la fine di un età, quella medievale, e l’esplodere del rinascimento. Ora cosa abbiamo? Per il teatro la scusa è che sono chiusi, altrimenti sarebbero già pronti a proporci Goldoni, Shakespeare, Pirandello etc… come se niente fosse successo. Il cinema invece che rimane “vivo” con il favore della spina attaccata alle varie piattaforme streaming ci propone Burraco Fatale.
E’ passato un anno. Ce ne siamo realmente accorti?
C’è un dato di fatto ed è quello dei teatri mai veramente chiusi durante i bombardamenti e che invece il 5 marzo di quest’anno avranno compiuto un anno dalla loro totale chiusura, salvo una finestra estiva e un accenno autunnale. L’auto-critica dovrebbe però essere appannaggio di tutti nessuno escluso: se da una parte c’è chi il teatro lo fa, sempre più chiuso nel proprio circolo, dall’altra c’è il pubblico che, a dire il vero, non è mai stato interpellato (vedi l’iniziativa #Facciamolucesulteatro del 22/02/2021 da parte di U.N.I.T.A, misera partecipazione). E’ un momento confuso, in cui non si hanno risposte, perché tutto sembra il contrario di tutto; c’è chi sostiene che il fine ultimo sia quello di sbarazzarsi dello spettatore, tenerlo sempre più lontano a casa, innocuo (Natalino Balasso in un post facebook del 21/02/2021). Siamo nel campo delle teorie più disparate, c’è chi afferma che il teatro pubblico ci ha solo guadagnato, chi invece è contento e soddisfatto per la nascita di associazioni e collettivi di categoria, pronti a difendere nel nome di un’arte sempre bistrattata il teatro che verrà. Una sola cosa è certa: mai come in quest’anno si aveva l’occasione di livellare i divismi, le torri d’avorio, i castelli in aria e i salotti culturali fini a se stessi. Il sistema teatrale ha mancato consapevolmente un appuntamento con la storia, quello cioè di misurarsi con le proprie questioni interne che ne evidenziano oggi più che mai il malfunzionamento, la marginalità e le fragilità.
Tutto deve cambiare perché, tutto resti come prima… magari!
Lo confesso, molte volte mi sono augurato che una qualche ragione estrema fermasse tutto anche solo per un attimo e ci desse la possibilità di renderci conto del privilegio che abbiamo nel realizzare e vivere a qualsiasi livello il teatro, che sia in uno scantinato o alla Scala di Milano. Constatare la totale mancanza di volontà di sedersi e parlare di quello che possiamo cambiare è triste, fa rabbia. Durante il corso di un lungo anno ci si è rifiutati di avere una visione del futuro e tutto questo è desolante. Nell’ora più buia del teatro italiano, c’è chi ha depistato concentrando l’attenzione sulla questione chiusura/riapertura, purché non si parlasse delle gestioni malate e fallimentari degli ultimi vent’anni. Ma il pensiero dei corsi e ricorsi storici mi consola poiché le oligarchie, non sono mai durate in nessun ambito e un giorno, spero di esserci, il teatro saprà liberarsi delle catene a lui afflitte in questi ultimi decenni. Nei miei sogni di teatrante anarchico il teatro è lo “spartaco” di tutte le variabili dell’umanità, dell’essenza umana stessa e prima o poi scaccerà via gli impostori, le sanguisughe e i lacchè. Una rivolta che sarebbe bello potesse avere in testa i signori “confusi” di cui sopra (che decidessero da che parte stare). Questa è e resterà per sempre la paura più grande di chi dirige e organizza impropriamente. La più nobile universale e a me più cara, delle arti che siamo stati in grado di realizzare nei secoli, sopra ogni discriminazione, religione, divisione, oltre i confini umani delle nazioni, nemmeno il meschino uomo del 2000 riuscirà a sopirla.
Marco Giavatto